Working class hero - "Amianto" e "Meccanoscritto", libri compagni di viaggio

“Avrei voluto che questa storia non fosse davvero accaduta. Come si dice? Frutto della fantasia dell’autore. Invece è la realtà che ha bussato alle porte di queste pagine. L’immaginazione ha riempito i buchi come stucco di poco pregio e ha ridisegnato certi episodi per meglio riprodurre le vicende di una vita e di una morte. Di una biografia operaia”.
Qual è la storia che si vorrebbe non fosse accaduta?
E’ quella di Renato e della sua famiglia. Alberto, suo figlio, la racconta in Amianto. Una storia Operaia (Alegre 2012).
“Questa [di Renato] è la sua storia, la storia operaia di un tipo qualsiasi, una storia come tante, di quelli che sono cresciuti nel dopoguerra, hanno fatto un pezzo del boom economico italiano sulla loro pelle, hanno vissuto la crisi petrolifera del ’73 sulle proprie tasche e sono morti all’inizio del secolo, ammalati dopo aver smesso di lavorare. Uccisi da un serial killer micidiale [...]”
Il serial killer micidiale sono “saette invisibili” d’amianto.
L’amianto ha un etimo rassicurante: significa immacolato, incorruttibile. Una credenza popolare sosteneva che l’amianto fosse la “lana della salamandra”. Grazie a questo strano indumento l’animale poteva sfidare il fuoco senza danno, senza morirne.
Ma l’etimologia ed il piccolo anfibio sono ingannevoli. Nascondono una terribile realtà che terrorizza solo a nominarla: tumore.
L’amianto con il suo letale segreto si è liberamente aggirato per la penisola fino alla metà degli anni Novanta, lasciando ovunque sia passato “bottiglie vuote” (così Luigi Pintor titolava un suo articolo sul Manifesto del 1972 dedicato agli infortuni, alle malattie professionali, ai morti sul lavoro): Casale Monferrato, Piombino, Taranto ed in decine d’altri posti.
In questi luoghi Renato ha lavorato per tutta la sua vita come operaio specializzato nelle saldature speciali.
Renato era “uno che s’infilava guanti d’amianto, e tute d’amianto, e si metteva lui stesso sotto un telone d’amianto, perché scioglieva elettrodi che rilasciavano scintille di fuoco a pochi passi da gigantesche cisterne piene di petrolio e che sotto quel telone respirava zinco e piombo […] fino a quando una fibra d’amianto, che lo circondava come una gabbia, ha trovato la strada verso il suo torace ed è rimasta lì per anni”.
Quando la fibra iniziò ad animarsi la vita di Renato velocemente terminò.
Questo è un libro terribile.
Ma oltre ad essere terribile è bellissimo.
“Terribile e bellissimo” come scrive Valerio Evangelisti nella introduzione.
Ed è bellissimo perchè riesce a tenere assieme “la tragedia e la commedia, il riso e il pianto in Amianto camminano assieme. Necessariamente. Perché nelle subculture operaie il fango e il rame, la blasfemia e la speranza sono intrecciate l’una con l’altra. Il comico e il tragico, l’alto e il basso, le radici e le ali. Lo sterco e il sole, come sanno i contadini. La forza di Amianto sta in questa ambivalenza. Che, dal punto di vista della carpenteria del testo, utilizza l’umorismo come materiale isolante, come una coibentazione necessaria per maneggiare il calore eccessivo della drammaticità della vicenda. Per toccarla e raccontarla senza scottarsi. Come faceva Renato, il protagonista del mio libro, nelle acciaierie. Usava l’amianto per coibentare. Ed io ho usato l’umorismo per coibentare e isolare l’amianto.”
I legami narrativi tra il libro di Prunetti e Meccanoscritto sono molti, ad iniziare dall’amianto:
“Laski è vero che lei si rifiuta di fare la refusione della zama?”
“E’ un lavoro per il quale non sono stato assunto”
“No! Lei è stato assunto anche per fare questo lavoro. Lei è un manovale addetto alla pressofusione, la quale implica anche la rifusione dei ritagli di materiale.”
“Le voglio far presente che già mettendo un manovale di terza categoria a lavorare su una macchina è una cosa fuori dalla logica, ma pretendere che un manovale comune prenda la conduzione di una caldaia a nafta per portare il crogiolo a seicento gradi è una pretesa un po’ esagerata.”
“Ma è un lavoro che hanno sempre fatto tutti!”
“Avranno avuto la patente o saranno stati dei manovali specializzati”
“Non avevano nessuna patente e nessuno ha mai fatto tante storie come fa lei ora. Ci sono gli stivali di fibra d’amianto ed i guantoni, ci sono gli occhiali cosa vuole di più?!”.
Questo dialogo è tratto da “Cinegiornale” racconto scritto da Renzo Cigoi nel 1963, gli anni in cui Renato iniziava a lavorare.
Oltre alla lana della salamandra c’è la militanza sindacale nella Fiom e l’esperienza di rappresentante sindacale che Renato fece nei primi anni Novanta.
In entrambi i libri c’è, ed è molto curioso, Luciano Bianciardi.
In Meccanoscritto: “davanti al Duomo, il pomeriggio del 5 febbraio 1963, ci sono anche alcuni intellettuali. Tra di loro Luciano Bianciardi, lo scrittore […].
L’Unità l’ha intervistato di recente; Bianciardi ha detto: “sono solidale con i mettallurgici in lotta. Vorrei saperne di più, vorrei fare di più perché forse non basta dichiararsi solidali. Bisogna conoscerci meglio per batterci tutti assieme”. […] Guerra, cronista dell’Unità, gli indica Giuseppe Sacchi, il segretario della Fiom di Milano, e glielo presenta […].
Sacchi lo ghermisce subito: “Tu devi scrivere un libro, un romanzo su questo sciopero”.
“Ma io” dice Bianciardi “ho scritto sui minatori perché li conosco fin da bambino. Il libro sugli operai bisogna scriverlo, deve farlo uno di voi”.
In Amianto Alberto legge a Renato alcune parole di Bianciardi tratte da Il lavoro culturale “attribuite a un tal Corinto, muratore invalido e poi bidello stalinista, ma figlio d’anarchici. Fu una rivelazione: gli apparve Mao e rimase a bocca aperta”.
C’è ancora un aspetto importante, fondamentale, che rende Amianto e Meccanoscritto compagni di viaggio.
Per evidenziarlo usiamo ancora le parole di Evangelisti: “due note conclusive. C’è chi ritiene che la classe operaia sia tramontata per sempre, sostituita dal lavoro cognitivo. Falso.
L’orgoglio di Renato Prunetti [e degli uomini e delle donne che abitano in Meccanoscritto, ndr] per ciò che faceva aveva basi concrete, materiali. Saldava, forgiava, ridisegnava i metalli. Ne andava fiero. Anche i suoi momenti di ribellione traevano origine da tali abilità. Si può irridere un simile passato. Pubblicare romanzetti di successo in cui la fabbrica è solo sfiorata, richiamata nel titolo e poi ignorata. Ma quel passato implicava fierezza, onorabilità, senso d’appartenenza, ribellione ai soprusi. Ciò che oggi si cerca di cancellare con ogni possibile, sporco espediente, perché in quella condizione esistenziale, prima ancora che materiale, risiedeva l’antitesi prima dello sfruttamento. Un operaio con la fronte bassa non è un operaio, ma un involucro funzionale a produrre miseria propria e ricchezza altrui”.
Renato Prunetti morirà nel luglio del 2004 ma la storia continuerà ancora per qualche anno in un Palazzo di Giustizia, per terminare il 29 settembre 2011:
“La Corte accoglie l’appello introdotto dagli eredi, accerta che il dante causa di parte appellante è stato esposto ad amianto a norma di legge, per la durata di anni 15, mesi 9 e giorni 21 e condanna l’Inps a operare la relativa rivalutazione contributiva, oltre al pagamento degli oneri processuali”.
La relativa rivalutazione contributiva per i benefici (a volte le parole sono feroci nell’essere irrazionalmente inadeguate) dovuti all’esposizione all’amianto si traducono in un incremento della pensione di reversibilità di Francesca, la moglie di Renato, di settanta euro.
“Giustizia è fatta? No, non è mai fatta. Giustizia è non morire sul lavoro, è non morire né veder morire i propri colleghi. Senza dover morire 'a norma di legge'. E’ lavorare senza essere sfruttati. E’ non dover vedere riconosciuto solo da morto quello che è un diritto da vivo”.
Ora andate a fare un giro, prendetevi una pausa, fate sedimentare il cattivo umore e poi cercate tra i vecchi vinili, nei più recenti cd, o in rete Working Class Hero di John Lennon.
Riascoltatela pensando a Renato e a tutti quelli come lui.
*Il collettivo Metalmente è una realtà aperta di lavoratori e lavoratrici metalmeccanici il cui obiettivo è raccontare a tutti il mondo del lavoro dall'interno. Sono autori, insieme a Wu Ming 2 e Ivan Brentari, di Meccanoscritto (Alegre, 2017). Qui la loro pagina facebook.