"Tutto documentato, tutto arbitrario". Fiction e non-fiction tra mutualismo ibrido e narrativa working class

8 May, 2018 - 10:36
autore/i: 
Maurizio Franco

Prosegue il dibattito sui problemi etici e poetici dell'ibridazione di tipologie testuali e dell'unione di elementi di fiction e non-fiction. Maurizio Franco affronta la questione dal punto di vista del giornalistia reporter allargando poi al rapporto tra mutualismo e narrativa working class.
Le puntate precedenti: Esiste un “inganno etico”? Qualche riflessione tra il Santo Graal e il Rocciamelone di Mariano Tomatis; Api working class: ancora su fiction e non fiction in 108 metri, di Luca Casarotti; A proposito di fiction/non fiction in Amianto e 108 metri, di Alberto Prunetti; Dopo la lettura di #108metri di Alberto Prunetti: appunti su fiction e non-fiction, problemi etici e poetici, di Wu Ming 1.

 

 

Preambolo

 

I riferimenti ai libri e le citazioni sparse nell'articolo hanno un nesso puramente causale, perché arrangiati e piegati alle esigenze divulgative e analitiche dello scrivente (precario dell'informazione).

 

È complesso rompere gli schemi preimpostati della storiografia letteraria e quando ci si approccia alla questione operaia è impossibile non rifarsi al pantheon neorealista degli scrittori italiani. Quelli sì che scartavetravano con l'inchiostro la scorza farinosa delle lamiere di amianto delle fabbriche, spulciavano gli intestini idrocarburici dei gasdotti e delle ciminiere di mezza Italia, raccontando gli atroci patimenti e le storie della classe lavoratrice. Dopo quarant'anni – siamo nel 2018, noi, asserragliati nei centri per l'impiego ad elemosinare lavori gratuiti, etichettati come occupabili, Neet e disoccupati da profilare, sventrati dai sorrisi linguacciuti dei profeti del made in Italy e dalla mannaia retorica della meritocrazia – i vecchi paradigmi vacillano, si sgretolano davanti alla complessità del presente.

Siamo nel 2018: calma piatta nelle secche dell'industria culturale e lacrime di nostalgia sulle pagine de Il sogno di una cosa di Pier Paolo Pasolini.

 

Eppure leggendo 108 metri di Alberto Prunetti (Laterza, 2018) rimango di stucco. Schiaffeggiato pagina dopo pagina, turbate le mie certezze letterarie, già intaccate peraltro da Meccanoscritto, collettanea di racconti metalmeccanici edita da Alegre nel 2017. Percepisco le avvisaglie di uno smottamento tellurico: l'epicentro è nei bassifondi della società, i sismografi della critica registrano una frattura, uno scollamento nella placca sociale. Giù, in basso, qualcosa inizia a crepitare e per capire il movimento sotterraneo delle zolle è doveroso mettere da parte le raccolte catastali di letteratura industriale, senza però accantonarle.
Che Paolo Volponi mi abbia in gloria!
Così Alberto Prunetti (ed altri) comincia a scrivere di fabbrica, di lavoro e di centri interinali, del “mestiere che ti entra” a forza di legnate. Nelle pieghe della narrazione emergono le bevute, le scazzottate, gli aneddoti, la solidarietà incondizionata tra lavoratori, le tecniche di sabotaggio, le anfetamine deglutite di prima mattina con un sorso d'acqua. Emerge uno sguardo obliquo, intimo e paradossalmente collettivo delle città di ferro, di Bristol e dei letamai anglosassoni con spazzola e paletta.
Tutto normale, tutto appassionante. Se non fosse che a scrivere 108 metri – quasi a codificare una ratio che nel tempo avevamo sgranocchiato e sputato come vessillo dell'autorganizzazione e della lotta – è un semplice operaio. Che poi sia un operaio che usi metafore per campare, uno scrittore maestoso (la sentenza è d'obbligo ed è necessariamente personale) è tutt'altra storia, un errore di sistema: il figlio di un saldatore che cita Shakespeare è un orrore indecoroso per il capitalismo contemporaneo. Per i padroni in carne ed ossa, molluschi bitorzoluti e idoli in putrefazione.

 

 

Parte prima

 

 

Grande è la confusione sotto il cielo, specie in Italia

 

Tutto documentato, tutto arbitrario.
Giorgio Manganelli, "Prefazione" al Pinocchio. Citazione ripresa da Paolo Sorrentino nell'esergo del suo ultimo film, Loro 1.

 

Esordiva così Alessandro Leogrande in un articolo pubblicato su Orwell e ripreso da minima&moralia: «Oggi si fa una gran discussione intorno alla non-fiction. Qual è il confine tra giornalismo e letteratura? È possibile individuare una linea di demarcazione o piuttosto una terra di mezzo al cui interno, a sua volta, prendono corpo percorsi differenti tra loro? Fino a che punto è consentito attraversare i confini? Dove si colloca l'io in tutto questo (l'io che osserva, l'io che agisce, l'io che narra)? Grande è la confusione sotto il cielo, specie in Italia, tanto che converrebbe mettere un po' di ordine nel discorso».
E Leogrande ci prova, proponendo una panoramica di autori e scrittori di non-fiction creativa – da Ryszard Kapuscinki ad Emmanuel Carrère, andando a ritroso nel tempo fino a Giacomo Leopardi ed Alessandro Manzoni – e fornendo poi delle regole di ingaggio per approcciare all'ornitorinco della prosa (definizione data da Juan Villoro).

Fiction e non-fiction si possono impastare? E – magari fosse possibile – come? C'è una formula magica con cui miscelare un po' di sbobba creativa con il pasticcio di ricordi e sensazioni che caratterizza l'esperienza? Esiste un rapporto di subordinazione, di dipendenza o di alternanza, una combinazione vincente per riconfigurare la realtà in un formato tascabile?

 

Nel giornalismo, la risposta è no! Non inventare appare a caratteri cubitali nell'articolo decalogo di Alessandro Leogrande. «Eppure questi libri si fermano ai bordi di un confine: non introducono mai elementi di fiction nel racconto. Non collocano mai il proprio io in posti in cui non è stato, non inventano personaggi dal nulla, non edulcorano la realtà, per un semplice motivo: se costruisci un metodo così complesso proprio per demistificare il mondo e il racconto di esso, perché poi falsificarne una sua parte, rompendo il patto con i lettori, scivolando sulla buccia di banana della legittimità?».

Se mi ritrovassi a scrivere un long form sulle acciaierie dismesse in Italia, un reportage o addirittura un'inchiesta su un punto specifico della faccenda, per un giornale, un settimanale o un semestrale, non utilizzerei mai composites o character che aggrumino più identità in una, così da sfornare personaggi stereotipati pronti per l'uso, aborti della volontà, con contesti mutilati, corrosi dal sensazionalismo e piegati alla propaganda politica del discorso pubblico aziendale. Mi riferisco ad un certo giornalismo nostrano del “tanto il fenomeno è quello” o “il succo del discorso non cambia”: purché se ne parli, si può intervistare un papa senza taccuino e registratore, rimaneggiare con la memoria una semplice chiacchierata ad intervista del secolo, commentare un fenomeno senza averlo mai visto e accampare poi pseudo giustificazioni deontologiche sull'impunità delle grandi firme.
La tentazione di inventare è grande – come è grande la confusione sotto il cielo – perché riportare la complessità è un atto etico, non gestibile senza un copione prestabilito e concordato da tenere sotto mano. L'oggettività è una chimera sbandierata da chi oggi vuole imporre una visione consolatoria del mondo con capri espiatori, vittime e carnefici precostituiti, da scannare per il pubblico godimento.

 

Fare il giornalista – un atto provocatorio, una dichiarazione di guerra ai potenti del pianeta – è fare informazione, rispondere ad un bisogno endemico della società. È ricostruire e interpretare, verificare l'attendibilità delle fonti, sezionare chirurgicamente i fatti.
È raccontare storie con ogni mezzo necessario.
Come scriveva Leogrande, la vera sfida del giornalismo contemporaneo è nella sussunzione delle forme della fiction, nell'ibridazione che è mimesis del carattere eterogeneo e transmediale dei contenuti, dell'esperienza abbacinante di schegge e chiodi nella furia detonante di un ordigno rudimentale. «I loro autori sembrano dirci (e spesso lo dichiarano apertamente) che occorre superare l'inchiesta giornalistica, o le gabbie della saggistica, su un punto specifico: lo scavo psicologico delle persone in carne e ossa. Occorre scandagliare gli abissi che si aprono in ognuno di noi, i dettagli della vita – che sovente rivelano il tutto».

 

Altri esempi di scambi arzigogolati di fluidi? Le Tre ricognizioni di Nicola Lagioia (edizioni dell'asino, 2017) – "Esquilino", "Il ritorno delle facce", "Un reportage sull'omicidio di Luca Varani" – tre indagini a tutto tondo che assorbono le tecniche del romanzo, riversandole in un impianto giornalistico di ferro. Dawla di Gabriele Del Grande (Mondadori, 2018) – «Tutti gli episodi e i dialoghi riportati sono basati sulle interviste raccolte, al netto di pochi e piccoli espedienti narrativi utili a legare tra loro le testimonianze» – Un viaggio che non promettiamo breve di Wu Ming 1 (Einaudi, 2016) o La Gente di Leonardo Bianchi (minimum fax, 2017). Senza contare i test fantascientifici della collana Quinto Tipo.

 

Postilla

 

Se l'ibridazione è la stella con cui orientarsi, perché non fare riferimento anche al webdoc.
“Il giornalismo combinato” (Simone della Ripa, European Journalism Observatory) è un oggetto mediale non identificato che incastra generi e codici diversi: immagini video, istantanee fotografiche, testo scritto, animazioni e grafiche vengono impallinati e sciolti nell'acido della piattaforma. Ne rimangono percepibili soltanto i contorni, recipienti di linguaggi dove incamerare informazioni, storie e dati. Il liquido è ridistribuito dalla forza di gravità – la maestria narrativa del team progettista, composto da giornalisti, fotografi, programmatori e montatori – in questa specie di vasi comunicanti, fino a raggiungere una superficie equipotenziale omogenea.
La struttura del webdoc suggerisce un itinerario di viaggio al navigante. Non impone nulla. Nel flusso digitale segnala traverse e rive scoscese, crocevia e strade chiuse, lasciando libera scelta (guardo il video? Vado avanti? Torno sulla foto?).
E anche qui degli esempi di ottima manifattura: The Dark Side of The Italian Tomato di Stefano Liberti e Mathilde Auvillain, i webreportage della rivista franco-tedesca ARTE, le combinazioni nostrane del Visual Lab.

 

Se volgiamo lo sguardo alla letteratura?

 

Avvertenza: qui rimescolo cose già dette come se fossero farina del mio sacco.

 

In 108 metri l'invenzione narrativa è saldata al racconto dell'epoca, in un tempo condensato nell'esperienza mitopoietica dell'io narrante che ripercorre in centotrenta pagine le sconfitte del movimento operaio e le mestolate di sugo liofilizzato nelle bettole oltremanica. Montaggio alternato degli eventi, accumulazione progressiva di materiale lavico, personaggi caricati a serra manico, ingigantiti, mutanti compositi, esperimenti genetici di contaminazione neuronale e meticciato linguistico.
Nel rullo della compressione letteraria, le vicissitudini di Alberto Prunetti – vere, tangibili, dolorosamente umane – diventano esperienza esemplare, patrimonio collettivo, allegoria dei tempi che corrono. Ognuno di noi – sempre noi, vulnerabili e sottomessi al giogo dell'economia della speranza e del business della disoccupazione – si riconosce nel giovane emigrante italiano nelle terre della corona inglese. È la storia di noi tutti.


Direte voi: ma alcuni personaggi non esistono?
Prunetti risponde: è un'illusione, cari miei, non cercate di ghermirne i segreti, godetene consapevoli del gioco fantasmagorico. Sì, a patto però che “la sutura” sia mostrata, come su un corpo convalescente dopo un trapianto di organi, le piastrine coagulate attorno al taglio ricucito, lo spago che ricongiunge i lembi della pelle.
Alberto Prunetti è ancora più meticoloso e perturbante, va oltre la raccomandazione preventiva, mostrandoci una ferita oramai cicatrizzata, senza punti, coperta dal fondotinta o dalle smagliature della carne. «Ho cominciato come un boscaiolo, ho continuato come un falegname e sulle bozze è stato un lavoro da ebanista».


La metafora di sangue e nervi della caducità di Renato, costretto dalla malattia su una sedia, è il calco dell'artigiano. L'altoforno di Piombino ha smesso di sbuffare. Le mani del padre – nonostante la scarnificazione polmonare del morbo minerario – sono ancora forti, «l'unica parte del suo corpo che la malattia non era riuscita a rovinare».
Metafora che sancisce la temporanea vittoria dei padroni nella lotta di classe (avranno vinto tutta una serie di battaglie ma non la guerra!), la scomparsa di un mondo e l'esigenza storica della lotta.
Renato è il padre di Alberto e il Priamo working class che noi tutti aspettavamo. «Lui invece aveva una mano che non era solo forte, era una mano che stupiva».

 

 

Parte seconda

 

 

“Il far da sé”

 

Restiamo fedeli all'assunto della Prima Internazionale secondo cui «l'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi».

 

Letteratura working class, la via è già tracciata in Amianto e con 108 metri Alberto Prunetti impone un ordine nella nebulosa sprigionata di fuoco e acciaio. Non basta raccontare la propria condizione di subalterno, sembra dirci l'autore. Per fare letteratura working class è necessario forzare gli schemi e le convezioni classiche dell'involucro letterario con cui la borghesia ha cantato le proprie gesta per svariati secoli, il romanzo appunto.
Del resto – come insegna ogni manuale di storia della letteratura – la forma rovinosamente precipita nel contenuto, le due entità si fondono come organismi unicellulari avviluppati nel plasma della mitosi e nello spurgo dei mitocondri.

 

Appropriazione del mezzo di produzione – «Come tirare la coperta alla sposa» – riconversione della lingua, autogestione nella composizione e creazione di un'«istituzione proletaria».
In tutte le epoche storiche le classi subalterne si sono appropriate di generi letterari codificati, storpiandoli, mozzandoli e rinverdendo la forma su cui si amalgamavano le istanze artistiche e sociali di un'intera comunità. «Qualcosa di buono può venire da un rimescolamento delle carte. Siamo stati comunisti, trotskisti, anarchici e libertari, movimentisti ed ecologisti, femministe, socialisti di sinistra e riformisti radicali. Le soggettività del domani e le scelte politiche conseguenti dovranno far tesoro delle migliori tradizioni».

 

Alberto Prunetti non è da meno, come punta di un iceberg che giace nelle profondità degli oceani ghiacciati della precarietà, della disoccupazione cronica, nella liquefazione del movimento operaio per come lo abbiamo conosciuto, e già nell'esergo al capitolo "This the question" con un brano tratto da La neve nera di Oslo di Luigi Di Ruscio fornisce indicazioni utili.
Il comico, il verbo degli sfruttati e dei vinti che irrora e trasforma il tragico, essenze che coesistono nella spinta dionisiaca della creazione.
L'epica stracciona dell'eroe working class – Cantami o diva dello zozzo operaio – il riscatto, le afflizioni e la caduta, il percorso di crescita, la sconfitta che vaticina una nuova lotta.
L'aedo, il rapsodo di calce e bulloni, è figlio della classe operaia. «Prendete 1/3 de L'isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, 1/3 di Riff-Raff di Ken Loach, 1/3 di vernacolo toscano. Mescolateli insieme, shakerate con grazia rude i giunti della sintassi. Otterrete un cocktail esplosivo che altera la vostra percezione».
E poi l'ibridazione con cui prefigurare il nuovo, miscellanea di succhi gastrici dove la condensa dei vari liquidi è visibile.

 

Una nuova istituzione proletaria

 

Dai una mano ai tu' soci. Sciopera. Non leccà il culo al capo. Non fa' il crumiro. Non infierì se ti tocca menà. Non prendertela troppo coi pisani, so' umani anche loro. Diffida dei quattrinai. Se uno studiato ti chiama signore, mettiti col curo al muro. Più una o due massime che ora 'un mi ricordo.

 

Non è un caso che 108 metri sia uscito in contemporanea a Mutualismo. Ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) di Salvatore Cannavò, giornalista del Fatto Quotidiano.
Due testi apparentemente lontani anni luce. Il primo è un oggetto narrativo non identificato. Il secondo è un saggio (la prefazione in prima persona è mefistofelica): analizza la storia del movimento operaio, gli slanci rivoluzionari, le sue crisi di identità e le tendenze internazionali, soffermandosi sulle prime forme di organizzazione dei lavoratori. È interessante la disamina storica, la direzione politica e analitica con cui Cannavò confeziona il testo: per ricostruire oggi una sinistra degna di questo nome è necessario volgere lo sguardo al passato, alle società di mutuo soccorso, alle cooperative e alle leghe operaie della seconda metà dell'Ottocento. Lì dove tutto è cominciato, un ritorno alle origini riscoperto «non come mito originario e purificatore» – come affermerà durante il convegno "Mutualismo. Pratiche, conflitto, autogestione" svoltosi il 7-8 aprile – ma come «terza dimensione dell'agire politico-sociale contrapposto alle esperienze politico-statuali del movimento operaio in cui si afferma il modello tedesco» (Pino Ferraris). Quando la dimensione sociale e politica stavano insieme – si ibridavano a vicenda – «in strumenti che pensano mentre fanno, e fanno ciò che pensano». Quando tutto ebbe inizio, a Bruxelles ad esempio, quando la Casa del popolo della città «produceva dieci milioni di chili di pane all'anno» per sostenere gli scioperi e la lotta. Era il 1905 e il pane incideva per il 35% sul bilancio di una famiglia operaia.

 

«L'idea di questa esposizione è che nelle storie dell'origine, nei canoni fondativi ci sia un codice sorgente di percorsi utili alla teoria e all'azione politica e sociale. Del resto questo codice ha permeato gran parte della storia del movimento operaio del Novecento».
Il far da sé (pensando) degli operai e dei contadini. «Le società operaie del XXI secolo avranno bisogno di costruire le proprie letture politiche, i propri centri studi, le proprie biblioteche, le proprie università o scuole di formazione, perché solo in questo modo l'esperienza mutualistica e le varie forme di associazionismo possono contribuire alla formazione di una coscienza adeguata alle sfide per la trasformazione sociale».
Il carattere germinativo dell'autogestione che preconizza una nuova società, inequivocabilmente antitetica all'ammasso di cemento, di ferraglia arrugginita, denaro virtuale e bolle immobiliari del capitalismo.
La resistenza e il mutualismo, un binomio dove «si coagula la forza operaia e irrompe la concezione del tutto inedita della solidarietà di classe» intesa come «strumento di organizzazione politica e di emancipazione sociale [...] ponendo le premesse per una forma di stato connotata dal riconoscimento pieno dei diritti sociali».
Prendere coscienza della propria condizione, riconoscersi con altri, annusarsi, tendersi la mano, agire senza trincerarsi sul cucuzzolo di un'isola felice, capire banalmente di non essere soli sul pianeta Terra. «E io mi entusiasmai: cazzo, lo diceva il mì babbo che le regole operaie sono internazionali. Anche loro ce l'hanno coi pisani, giusto? E contento mi sembrava che il mondo fosse una grande casa per la working class, come quando ero piccolo».

 

Salvatore Cannavò individua nel sindacalismo ad insediamento multiplo la forma organizzativa con cui inscatolare le variegate esperienze di lotta, le pulsioni contrastanti e complementari scaturite dalle istanze politiche e dalle rivendicazioni sociali, coniugando mutualismo e resistenza. Cooperative che si riappropriano di una fabbrica, la recuperano per produrre lavoro e reddito. Studenti, precari e disoccupati autoctoni e migranti, vessati dalla piaga dello sfruttamento e del caporalato, che occupano una terra, la coltivano. Camere del lavoro metropolitano, sportelli legali, presidi sanitari, capannoni dismessi riconvertiti ad aule studio, sartorie, palestre popolari, spazi di socialità e condivisione. «La varietà di strutture che può comporre questa forma di ibridazione tra politico e sociale è estesa ed è direttamente proporzionale alla creatività sociale di chi decide di associarsi». Qui la “sutura” è lo stridio zigzagato della chiusura lampo della soggettivazione. La «smerigliatrice per limare quei punti» è il conflitto.

 

Tornando a noi, dicevamo: non è un caso che 108 metri e Mutualismo siano usciti nello stesso periodo. Nella fase storica delle tecnocrazie, del capitalismo delle piattaforme e degli algoritmi dello sfruttamento, nella fase più acuta della controffensiva padronale, dove sindacati e partiti sono grumi di potere e apparati organicamente intessuti nella filiera del valore, i due autori sembrano interrogare lo stesso vaticino. «La crisi storica del movimento operaio chiede uno sforzo eccezionale di fantasia e sperimentazione per ricominciare».

Libri diversi, ma mossi dalla stessa tensione. Libri speculari, che si squadrano da lontano e si toccano.
«Affermando le proprie istituzioni, il mutualismo indica quale società futura vuole realizzare, costruisce consenso e fiducia tra i propri aderenti, ne attira di nuovi. Si propone così come un'altra istituzione, un altro possibile potere, sfida i poteri esistenti. E, inevitabilmente, entra in conflitto con questi», scrive Salvatore Cannavò.
Affermando se stessa e le proprie regole, la letteratura working class indica quali scritture vuole realizzare, costruisce immaginario e consenso tra gli sfruttati e i vinti del nuovo millennio. Si propone così come un'altra istituzione, un altro possibile potere, sfida le narrazioni esistenti. E, inevitabilmente, entra in conflitto con queste.

 

Posso affermare che 108 metri di Alberto Prunetti è la prima gittata per un nuova istituzione proletaria. «Dovevo scrivere la mia storia, la storia della working class in cui ero nato. Dovevo farla circolare, perché diventasse una minuta proteina di quel codice che avrebbe rotto le catene della sopraffazione».
Il codice sorgente del movimento operaio.
Il sindacalismo ad insediamento multiplo è l'equivalente politico-sociale della letteratura working class: espressione della volontà di ricomporre i pezzi, frantumati e dispersi nelle pieghe degli anni Ottanta, quando il Feticcio sbiellava i nasi con il proprio tanfo in decomposizione, iniziando ad imputridire nelle latrine di tutto il mondo. Espressione di una nuova identità di classe.