Tra i vicoli profondi di Genova Macaia che per gli uni son degrado e per altri poesia

Non aspettatevi la mappa di Genova. Quella di Pieranni non è una cartografia orizzontale, una riduzione metrica che si estende lungo coordinate cartesiane, razionali, procedendo per idee chiare e distinte. E non è neanche forse una derive francese, coi suoi spaesamenti di superficie, o un attraversamento letterario di passages alla Benjamin. La Genova del Pieranni è tutto questo, in parte, ma è anche e soprattutto un’immersione in una memoria che procede per carotaggi verticali, saggiando i propri luoghi oscuri con lo scandaglio di una scrittura ibrida che mescola forme espositive diverse fino a sfiorare addirittura il genere pietistico della confessione, che si estende da Sant’Agostino alle Confessioni di un rivoluzionario di Pierre- Joseph Proudhon.
Da Bolzaneto a via del Campo fino al porto ce n’è di strada e Pieranni la percorre in autofiction attraverso un percorso emotivo iniziato nella sua precedente scrittura ibrida, quel Settantadue pubblicato da Alegre nel 2016 che conteneva già in embrione un racconto genovese di cui questa magistrale prova narrativa data alle stampe da Laterza costituisce probabilmente uno spin off. Solo che allora il trauma che apriva i rubinetti della narrazione era la malattia e la dialisi e adesso il punctum del racconto è lo shock della repressione di Genova 2001, l’atto per cui Bolzaneto smette di essere la casa di Pieranni per diventare l’altare in cui il potere compie un sacrificio rituale di sangue.
Sprofonda attraversando stratigrafie di forme espositive diverse il Pieranni, ma la sua non è una trivella da geologo, che puoi maneggiare dall’esterno: sprofonda lui nei ricordi e si porta dietro il lettore, dentro a squarci di infanzia e di memorie fetali che danno il groppo alla gola, immagini di schedine della domenica pomeriggio nei primi anni Ottanta con le radio a pile che gracchiano e i ravioli al sugo e le partitelle all’ultimo sangue in parcheggi dove i tossici si radunano a fianco ai ragazzini che inseguono i tanghi sgonfi. E ti rendi conto che quella Genova lì, in cui tu lettore puoi anche non aver quasi messo piede, per vie cave e ipogee comunicava con la tua esperienza della vita e dell’infanzia, che Genova per noi nati nei primi anni Settanta, che al contrario del Pieranni a malapena ci siamo stati di passaggio, persi nella moltitudine beata ed ebete dei turisti, è qualcosa che ci sta sotto ai piedi, non orizzonte marino ma profondità carsica che però puzza di salmastro e macaia, una profondità che t’inghiotte, lo dice anche Conte, come t’inghiotte Pieranni nella sua Genova che sa di incazzatura e di piscio in un vicolo sporco, che per gli uni è degrado e per altri poesia.