Torino – Firenze A/R

Torino, luglio 2015

 

L'impressione che ho è che le città inizino ad assomigliarsi un po' tutte, a partire dalle stazioni ferroviarie. Sarà forse perché una volta scesi dal treno ci si ritrova davanti bar, negozi e librerie che fanno parte di catene commerciali. Stessi marchi, stesse vetrine, stessi prodotti un po' ovunque.
La tendenza è verso un modello commerciale che rende i centri delle città interscambiabili tra loro, nella sostanza.

 

La stazione di Porta Nuova a Torino si sta piegando lentamente, mese dopo mese, al diktat di diventare un centro commerciale da cui partono, quasi per abitudine, alcuni treni. Nei prossimi anni l'alta velocità verrà dirottata totalmente sulla nuova stazione di Porta Susa (all'ombra del grattacielo San Paolo) che, a differenza di Porta Nuova, non è una stazione di testa ma di passaggio, appunto. In stazione non si arriva più, al massimo si transita, come i treni, e bisogna farlo nel modo più veloce possibile, magari consumare caffè e brioche e prendere un giornale e poi via, fuori, a chiamare un taxi o saltare al volo su un'auto amica parcheggiata in divieto perché non ci sono parcheggi, non ci sono sale d'aspetto, da queste parti si transita e basta.
Compri qualcosa e vai via.
Marsch.

 

Verso Firenze.
Prendo la metropolitana torinese in Corso Marche e scendo alla fermata di Porta Nuova. Chissà perché mi colpisce ogni volta notare che ogni fermata della  metro è uguale alla precedente e alla successiva, tutto uguale, tranne il nome. È così per ogni metropolitana del mondo, immagino, ma questa di Torino mi colpisce di più. È il sempre uguale che torna.
Arriva la mia fermata dopo una curva ampia, lunga, sotto la superficie di Torino. Prendo le scale mobili per raggiungere i binari della nuova “stazione da vivere”. La volta del salone d'accesso è invasa dalle impalcature, stanno rimodernando per darci la possibilità di vivere una nuova esperienza per il nostro shopping targato Expo2015.
I corridoi in direzione dei binari sono pieni di persone che vanno e vengono, sulle panchine un po' di umanità notturna che lentamente apre gli occhi al nuovo giorno, si vede che alcuni di loro hanno passato la notte a dormire all'esterno dell'edificio. Oppure in giro, vai un po' a sapere dove. Stanno lì e si guardano intorno, qualcuno legge un giornale.
Raggiungo i binari, sono in anticipo di circa mezz'ora e non è ancora stato assegnato nessun binario al treno AV 355 Torino Porta Nuova – Roma Centrale delle ore 8:30 che fermerà a Milano, Reggio Emilia, Bologna, Firenze, Roma.
Assegnano il binario al treno, seduto su una panchina rifletto sul senso di questo viaggio, sulla presentazione (del libro? Mia? Di cosa?), sulle tracce che lascio in giro e a ciò che raccontano. Raggiungo il binario sovrappensiero, un tipo con un borsello e una casacca rossa mi ferma, lo guardo senza capire.
«Biglietto signore!».
Sulla casacca ha un distintivo con su scritto “sicurezza aziendale”.
«Prego?».
«Il suo biglietto».
«Perché qua?».
«Sono le nuove regole».
«Ecco il biglietto».
«Buon viaggio».
«Verrà ricontrollato a bordo?».
«Sì».
«E che senso ha tutto ciò?».
«Sicurezza».
«Di chi?».

 

Alla fine è uno che sta lavorando, mi dico, vai avanti e non rompere il cazzo già di prima mattina. Però: che senso ha? Volessi salire su un treno di straforo non lo farei mica dall'accesso principale al binario. E se qualcuno volesse accompagnarmi fino alla carrozza potrebbe farlo?

 

Raggiungo la carrozza e il posto che mi hanno assegnato e mi immergo nella lettura de L'erba delle notti di Patrick Modiano, di tanto in tanto guardo fuori dal finestrino il paesaggio. Una leggera inquietudine non mi lascia viaggiare tranquillo.
La stazione di Milano Porta Garibaldi è semideserta, pochi passeggeri e i manifesti che danno il benvenuto ai visitatori dell'Expo2015 con slogan entusiasti e ottimisti sono proporzionalmente superiori ai visitatori. Occupano lo sguardo, lì fermi ad aspettare chi potrebbe arrivare.

 

E: Andiamocene.
V: Non si può.
E: Perché?
V: Stiamo aspettando Godot.
E: Sei sicuro che sia qui?
V: Cosa?
E: Che lo dobbiamo aspettare.

 

Il ritmo del treno mi culla, il paesaggio sfreccia al di là del finestrino a oltre duecento chilometri orari, per andare dove? Alberi si infrangono contro il vetro. Urla, polvere e vento freddo addosso, voci urlanti e il volto bagnato dalle lacrime, a quasi quarant'anni pesano ancora di più. Non si piange a questa età. Una vergogna che non si può dire. Il mondo si rovescia al ritmo di una batteria, l'incedere di un basso elettrico, una chitarra elettrica che traccia la melodia e una voce riempie lo spazio intessendo parole e suoni che rimbalzano fra sedili divelti e braccia impazzite. Guardo il mio mondo diventare nero. Lacrime ovunque, lacrime e sangue di ritorno da un paese devastato e vile. La testa crolla giù e la sensazione di vuoto mi fa aprire gli occhi su un corridoio sgombro. Il mio vicino mi guarda. Avrò dormito? Eppure non ho sognato.

 

I ragazzi che occupano i posti accanto al mio parlano dei colleghi, dei turni in ospedale, di quello che se c'è il professore è in reparto alle 5:45, ma se non c'è il professore col cazzo che arriva prima delle 7:00.

 

«Una volta l'ho dovuto chiamare, erano le 7:10 e ancora non arrivava».
«Ma veramente?».
«Ti dico che se il prof. non è in reparto lui non si vede».
«Che stronzo».
«Sì, ma alla fine io lì mi trovo bene. Faccio il mio lavoro, cerco di essere cordiale con tutti anche se ognuno lì pensa alla propria carriera e basta. Contenti loro».
«Provo a sentire se hanno trovato la tua prenotazione».
«Sì grazie... mi sa che stanotte dovrò dormire per strada...».

 

Il treno rallenta, entriamo nella stazione medio padana di Reggio Emilia che non ho mai visto piena di viaggiatori ma stavolta è praticamente deserta. I cartelloni pubblicitari non hanno nessuno intorno, nessuna vita sul marciapiede. Il treno AV riparte più leggero, veloce verso il prossimo deserto.

 

Mi rituffo nella lettura del libro di Modiano.

 

Arrivo a Firenze. Così come Porta Nuova a Torino, Milano centrale, anche Santa Maria Novella è una stazione che non è adatta all'alta velocità. C'è in progetto una nuova stazione ferroviaria ma il progetto è stato bloccato, i tunnel che dovrebbero attraversare la città sono osteggiati da un comitato di cittadini che hanno presentato un progetto alternativo per potenziare la linea di superficie.
Attraverso la stazione ed esco sul piazzale.
Santa Maria Novella, la chiesa, la stazione, il piazzale, le finestre della stazione con gli spuntoni in ferro per non far sedere nessuno sui davanzali.
E ora dove vado? Che strada imbocco?
Tanto è uguale.

 

Stare per strada
è riprendersi l'infanzia
il tempo bambino
in cui un'ora è eterna
senza saperlo
un momento un giorno intero
e l'orologio l'incompatibilità
della scansione adulta delle stanze.

 

La strada brucia.
Mi godo lo spaesamento che provo nel momento in cui arrivo in un luogo che non conosco, mi guardo intorno per prendere le misure del posto, delle vie, degli edifici, del flusso di persone.  Donne con vestiti leggeri mi passano accanto, suoni di lingue diverse risuonano intorno e l'aria è immobile e appiccicosa. Un'ambulanza arriva e si infila direttamente nella stazione, una donna s'è sentita male. Guardo alla mia destra e vado verso la chiesa, vedo che nell'edificio accanto c'è l'ufficio per il turismo, entro e faccio la fila per prendere una cartina della città.
Il mio scarso senso dell'orientamento si mette l'anima in pace e decido un percorso da seguire, almeno in linea di massima, non ho appuntamenti e nessun luogo da visitare. Mi chiedo però: dov'è che il fascista Casseri uccise Diop Mor e Samb Modou? Non ricordo il nome della via o piazza ma – mi dico – se ci passerò lo riconoscerò da una targa, da qualcosa. Ci sarà qualcosa. Un ricordo. Chi ricorda?

 

Imbocco via delle Belle Donne attratto dal nome della via, da lì percorro via Strozzi e mi fermo in strada davanti all'ingresso del palazzo ammirandone la facciata, avverto un'auto fermarsi delicatamente a pochi centimetri dalla mia gamba. Mi scuso, ringrazio e torno sul marciapiede. Supero l'ingresso del palazzo, ospita un museo adesso, e un bar elegante al piano terra in cui non oso entrare. Mi fermo nell'atrio ad ammirarne il disegno seduto su un lastrone di pietra. Guardo il cielo sopra Firenze da una finestra disegnata nella pietra.
Non ho tempo di visitare le mostre, non ho neppure i soldi in verità. Dovrei tirare ancora di più la corda.
Continuo la camminata lungo via de' Tornabuoni fra persone che scattano foto e autoritratti in posa sorridenti davanti alle boutique di alta moda, con un telefono in cima a un bastone metallico. Mi fanno un po' pena ma non sono cazzi miei.
Un giro di basso, e poi una chitarra s'aggiunge a tessere trame sonore nella mia testa. Il basso è quello di Flea, la chitarra di John Frusciante. Il caldo è asfissiante e c'è ovunque un brusio di fondo.

 

Giro fra i palazzi, una via dopo l'altra, vetrine, dehors, statue, palazzi e targhe. Anche qua, a Firenze, ci sono le targhe dei partigiani sui muri delle case. Non così frequenti come a Torino ma ci sono, così come è segnata l'altezza raggiunta dall'acqua quando straripò l'Arno nel 1966.
Mi guardo intorno in piazza della Trinità, le finestre sono tutte chiuse, tutte tranne una da cui sbuca una signora con macchina fotografica. Stanno ovunque, mi dico, i turisti stanno ovunque, fanno parte del panorama.
Mi fermo sul ponte della Trinità, scatto una foto al fiume con Ponte Vecchio sullo sfondo, si avvicina un ragazzo mi chiede se voglio acquistare un bastone per i selfie...
«Selfie, selfie».
«No, grazie».
«Per i selfie».
«Non mi serve, grazie».

Il ragazzo si allontana sorridendo.
Mi inoltro Oltrarno, lungo via Maggio.
Supero via Sguazza, imbocco via Sdrucciolo de' Pitti, vecchie insegne di botteghe ormai chiuse, anche una antica osteria. Sbuco in piazza Pitti e il faccione del palazzo si impone allo sguardo con tutta la sua violenza. Violenza architettonica, politica, economica che è ancora lì, in potenza.
Faccio un giro intorno al palazzo e riesco a entrare nel giardino, enorme e bellissimo. Cammino fino a quando non sento un
«Signore... Signore!».
«Dice a me?».
«Sì, non si può entrare da qui».
«Ah».
«L'ingresso è laggiù e la biglietteria è in fondo».
«È molto bello qui... Sa se ci sono convenzioni con la carta dei musei piemontesi?».
«Eh no... mi sa di no. Si figuri che neppure noi dipendenti abbiamo uno sconto».
«Sta cambiando tutto e non si capisce granché».
«Cosa sta cambiando?».
«Il passaggio al polo museale... Non si capisce più niente: chi vende i biglietti, chi pagherà gli stipendi... niente».

 

Torno sul piazzale, mi siedo dando le spalle al museo e osservo le facciate dei palazzi di fronte. Un altro ragazzo si avvicina:

«Bastone per Selfie?».
«No grazie».
«Costa poco».
«Ma non so che farmene».

Mi guarda, sorride e si sposta in direzione di una coppia appena arrivata sul piazzale, i due tengono uno smartphone così da poter inquadrare se stessi e il palazzo. Comprano il bastone per i selfie e io comincio a odiare questa parola.
Mi tiro su e torno a camminare per strada. Scelgo via Guicciardini e seguo con lo sguardo il percorso del corridoio vasariano che da palazzo Pitti porta a palazzo Vecchio e attraversa Ponte vecchio. Incontro le targhe che mi indicano la casa di Machiavelli e quella del Guicciardini. Sui marciapiedi si alternano bar, negozi d'abbigliamento e paninoteche, piccoli ristoranti.
Ma cos'è che vorrei avere intorno? Va bene sono turisti (e non lo sono anch'io?) e forse Il Principe non l'hanno letto (non l'hai letto neppure tu, mi dico) e con ciò? Cosa vorresti intorno? Letterati e pittori ovunque? Fotografi all'altezza di Koudelka?
Ma che ne so! Ma questo che ho intorno è un enorme mercato. L'unica consolazione che ho è che sono qua per lavoro. E le consolazioni servono a poco.

 

Raggiungo e attraverso Ponte Vecchio. C'è molta ressa intorno alle vetrine delle oreficerie e i cancelletti intorno al busto del Cellini sono infestati dai lucchetti dei lettori di Moccia.
Svolto a destra guardando i quadri degli artisti da strada che dipingono il fiume, i palazzi e –  naturalmente – Ponte Vecchio. La maggior parte sono donne, orientali. Ci sono anche un paio di pittori nordafricani. Guardo un po' le loro opere, c'è qualcosa di bello in ognuno. A causa della velocità mi viene da pensare che siano specializzati nell'esecuzione dello stesso paesaggio. Quasi sapessero già in che modo cade quella certa ombra a una certa ora. Ma molto probabilmente mi sbaglio: sono solo bravi, forse non geniali ma bravi. Cammino con l'Arno alla mia destra e inciso su una targa mi afferra il nome della viuzza: via dei Georgofili.
Cos'è “via dei Georgofili”?
Attraverso la strada e scatto una foto alla targa. Ripeto il nome a fior di labbra e scavo nella memoria, è qualcosa di importante, lo sento, ma cos'è?
Ho un leggero capogiro, sarà la fame, mi dico, ma allo stesso tempo mi sento preso da un senso di straniamento.
Mi incammino lungo la viuzza e la vertigine sale, ma che cazzo è? ... via dei Georgofili... via dei Georgofili... e lo sento che sto camminando verso qualcosa che è stato.
Guardo alla mia destra e vedo le cicatrici sui muri e allora mi ricordo. Torna alla mente prima la parola “tangentopoli”, poi “anni Novanta”, “discesa in campo”, gli attentati di Capaci, Palermo, Roma, Milano e – eccoci arrivati – Firenze. E guardo le cicatrici nei muri degli edifici ricostruiti. Scatto una foto all'ulivo posizionato in ricordo della strage davanti alla sede dell'accademia. Mi fermo e lascio scorrere lo sguardo in giro. Imbocco via Lambertesca con i brividi addosso.
Sbuco nel piazzale degli Uffizi, una folata di vento spazza via un paio di ombrelloni e alcuni manifesti. Respiro l'aria e mi siedo su un sedile di pietra. Storia recente, dell'ultimo ventennio. Fatta di intrighi, morti, giochi di potere degni dei Medici e dei Pitti, montagne di misteri occultati come rifiuti industriali, inabissati nella memoria collettiva che rilasciano liquami tossici. Questa storia è ancora presente, spietata, banale come un regolamento di conti fra confinanti. Sangue, terra e animali sgozzati. Trattativa Stato-Mafia.

 

Spesso avevo vissuto la stessa cosa: certi sogni – o meglio certi incubi – fatti la notte precedente, te li porti dietro per tutto il giorno.

 

La notte della prima Repubblica avanza, incalza i giorni come una maledizione.

 

Piazza della Signoria. Esterno, giorno - Tarda mattina.
Aspetto il mio turno per poter accedere alla Loggia della Signoria, il signore che regola il flusso si sta lamentando del dolore che ha alla spalla sinistra. La corda è pesante e lui sta lì ad agganciare e sganciare per ore ogni giorno. Ma che ne sa lei, senta un po' anche lei... pesa eh? Annuisco e il tipo mi restituisce un sorriso, mi fa passare. Scatto un po' di foto al Perseo, penso al messaggio che sta dietro quel taglio netto, al sangue che viene giù. Mi siedo su un gradino, accanto a me ci sono un po' di persone con in grembo album da disegno. Studiano le statue, tracciano linee. Il guardiano della Loggia manda via a gran voce molti dei presenti, risparmia me e i disegnatori. Guardo la piazza. Cosa vedono le statue? Una massa di persone che restituisce il loro sguardo in modo distratto, il più delle volte. Mi viene da pensare che le statue sono lì per noi, ma noi non siamo un gran bel soggetto da osservare. Il più delle volte.
Scatto foto anche ai palazzi, le riguardo e le cancello. I ristoranti hanno quasi tutti il dehors e i nebulizzatori.
Mi sposto.
Ed è in ogni angolo un gran mercato, tutto un cercare un'inquadratura, uno scorcio, un bar fra altre persone che sono anch'esse alla ricerca di qualcosa da vedere, da conservare e portare a casa.
Cammino e canto il ritornello di Country Feedback dei R.E.M, canticchio «i need this / i neeeed this!», non so bene a cosa riferirmi se non a ciò che non c'è, ciò che avremmo potuto avere. Tutti, indistintamente, al posto di questa illusione.

 

***

 

Lui conosce il potere di “Torrone”, capito? “Il potere di Torrone”, dice un tipo seduto a bordo di una carrozza ferma in piazza San Giovanni in attesa di turisti. Il suo collega seduto sulla carrozza parcheggiata accanto annuisce. I cavalli sono fermi, eleganti. Uno zoccolo si muove appena.
Sono seduto sui gradini dell'ufficio per il turismo, che è chiuso – è domenica ed è chiuso, giustamente – e questa cosa infastidisce, si chiedono: ma come fai a chiudere l'ufficio con tutta la gente che c'è? Neanche fosse il pronto soccorso. Dalla mia posizione scatto un po' di foto, il vantaggio delle foto digitali è la velocità con cui puoi guardare il risultato. E buttarlo via. Vedo congelate sullo schermo le facce, le posture, le guardo e torno a guardare la folla in movimento nella calura. Cancello le foto e ne scatto una al campanile di Giotto. Vado via lungo via de' Martelli, passo davanti al palazzo della famiglia de' Medici. Penso al loro potere e a quello in atto ora, che è sempre quello di chi vuole asservire qualcuno. Supero il palazzo lungo via Cavour, l'atmosfera cambia, ci sono poche persone per strada. Su una vetrina di un centro per l'impiego c'è un cartello su cui c'è scritto che la crisi è l'occasione per tagliare i servizi ai cittadini e che nei prossimi giorni ci sarà uno sciopero del personale.
Firenze è una delle città italiane in cui la macchina del turismo pare che funzioni. Ma se anche qua si respira la paura che tutto possa crollare da un momento all'altro, mi chiedo come possa Torino sperare di rifarsi del buco in bilancio lasciato dalle olimpiadi e dall'inasprimento della situazione a causa della crisi, puntando sul turismo.

 

«I know is not easy but I believe
dedededede
if finally the leadership, is, are,
able to – tototototo –
invest in the future
not as problem but as an
anananan
opportunity... I hope... So
blablablablabla».

 

Cantando «I'll shout and scream / I'll kill the King / I'll rail at all his servants», volto in via dei Guelfi e poi in via Riparata, raggiungo il luogo dove ci sarà la presentazione domani. Mi siedo su un muretto nel cortile e mi guardo intorno. Mi colpiscono le grandi scritte in greco, scoprirò poi che sono lì da decenni, tracciate da fuoriusciti dalla Grecia durante il periodo dei Colonnelli. Mi godo il rumore di fondo fatto di frasi con un marcato accento fiorentino, prendo qualche appunto prima di rimettermi a camminare per le stradine verso piazza Beccaria.
Lungo il cammino leggo su un muro "no buona scuola!".
Vedo una porta rossa e vorrei dipingerla di nero.

 

Notturno
[su Torino da Firenze]

 

Le strade, un'ossessione
le linee tracciate
il racconto
la luce che filtra dalle tapparelle abbassate
rimbalza sui muri sui vetri
di case palazzi uffici
uguale da Firenze a Torino
la luce elettrica unisce le notti delle città
nessun cane in giro
pochi animali in libertà.

 

Le città, queste routine di traffico
semafori, morti, sfratti, conversioni e matti.

 

Termovalorizzatori sbuffano polveri
nell'aria densa.
La città si curva
flette il suo scheletro, muta dna.
I parchi s'affollano di persone e barbecue
nei giorni di festa. Le fabbriche, un cattivo ricordo.

 

La Tyssen sta lì con vetri rotti e soffitti anneriti
I suoi morti che
chiedevano giustizia in vita.
Davanti ai semafori di corso Regina
giocolieri e strilloni di giornali ormai muti
nelle loro giacche ad alta visibilità.

 

La città ha la pancia gonfia
ingoia eventi
jazz & classical music for expo
esposizioni, ostensioni, visite illustri
aria fritta riempie le piazze, le pance,
i clochard devono trovare panchine più ospitali
nuovi portici sotto cui stare
a chiedere e aspettare.

 

La città, questo corpo
che attraverso sfrecciando
su una bici sberciata
scivolando sui binari del tram
scartando buchi in bilancio
e voragini di conti truccati
questa città industriale commerciale psicotica
strafatta d'antidepressivi
dall'asfalto trascurato,
ché i soldi mancano
gli ospedali chiudono
le fabbriche son dismesse
e le persone passano
da una vetrina all'altra
imbambolate da luci e prezzi
prima di tornare a casa.
Se ancora si può
Se ancora una casa c'è.
Se c'è ancora nella città
chi ha una casa a cui tornare.

Verso Torino.
Una manciata d'ore passate nel parco Lungarno dopo aver salutato chi mi ha ospitato. Riprendo il viaggio verso Torino dopo aver allargato il numero dei compagni di viaggio.
Cammino con l'Arno alla mia destra in direzione della stazione. Il fiume è placido, il parco è assolato, poche persone intorno fanno jogging in vista della prossima estate. Una canoa rossa scivola lenta sulla superficie dell'acqua, a bordo un signore anziano a torso nudo spinge i remi in acqua lento, preciso come un metronomo. Lo guardo e scatto una foto, mi rimetto in cammino, sento i tuffi dei remi divenire sempre più flebili alle mie spalle.
Imbocco Ponte alle grazie poi via de' Benci, via Verdi, via Ghibellina in direzione del museo nazionale, imbocco via del Proconsolo, mi ritrovo davanti il museo Gucci. Torno indietro sui miei passi, intascando biglietti da visita di ristoranti e trattorie, alla ricerca della casa di Dante.
Si apre una piccola piazza sulla mia destra, un gruppo di persone – giapponesi direi – sta ascoltando in religioso silenzio il racconto di una guida. Di tanto in tanto qualcuno scatta una foto. Leggo la targa che informa che la casa museo di Dante Alighieri fu costruita nei primi anni del Novecento per volere del Comune nel luogo dove, da tradizione, sorgevano le case degli Alighieri.
Ma allora è finta, mi dico, è solo una ricostruzione. Passo oltre. Non sono sufficienti due giorni per andare oltre la superficie. Via, vado via.

 

Via dei Tavolini fino in via Calimana, via Roma e (ancora) piazza San Giovanni, borgo San Lorenzo, piazza Madonna Aldobrandini, via Giglio, via dei Panzani, piazzale Santa Maria Novella, binario 7.

 

Prendo posto e riapro il libro di Modiano, ho divorato le pagine di questo romanzo fatto di pezzi di memoria, di sogno, fatto di stanze e strade di Parigi, di nomi, misteri, uno o più crimini, la guerra d'Algeria, numeri di telefono, testi che hanno a che fare con la letteratura, tutto appuntato su un taccuino nero. Un racconto potente che scorre con frasi ipnotiche e musicali. È come stare a guardare lo scorrere del fiume, le piccole increspature della superficie delle onde, le piccole cose che l'acqua trasporta con sé, cose vive, cose morte, foglie, erbacce, pesci e una canoa rossa guidata da un vecchio.

 

Viaggio a ritroso. Viaggio verso Torino ad alta velocità. Preferisco il ritmo del cammino, un passo dopo l'altro, un ritmo sano, una parola dopo l'altra.

 

Le stazioni con il loro vuoto ci accolgono: Bologna, Reggio Emilia, Milano, Torino Porta nuova con la sua plumbea, liquescente tettoia. Fine corsa del treno, si prega di scendere.
Leggo un articolo su un giornale, di tanto in tanto pubblicano i dati di affluenza ai padiglioni expo, dati che sono molto al di sotto delle previsioni. Ma, nonostante i dati, l'esercito degli expo ottimisti pare tenda ad aumentare. Pare che la storia della rinascita dell'economia italiana tramite il traino dell'esposizione internazionale sia ancora credibile. I conti si faranno a settembre.

 

V: E chi lo crede?

E: Ma lo credono tutti. La gente conosce solo questa versione.
V: La gente è troppo cretina.