Nel profondo della Roma che fu per ritrovare mio nonno - Lucia Mancini intervista Rosa Mordenti su Romaitalialab

10 October, 2017 - 16:34
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intervistata da Lucia Mancini
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«È la storia di una tragedia familiare antica di un paio di generazioni e di come si riverbera nel presente, coinvolgendo l’identità non solo delle persone implicate ma di tutto un pezzo di mondo che infine è il nostro». Così Alessandro Portelli inizia la sua prefazione di Al centro di una città antichissima, il libro edito da Alegre e scritto da Rosa Mordenti, giornalista e autrice. Una prefazione che tenta di individuare, già in queste poche righe, alcune delle caratteristiche principali di quest’opera, pubblicata lo scorso aprile nella collana diretta da Wu Ming 1.

Primo: si tratta di una tragedia familiare, una storia priva di lieto fine riguardante l’uccisione del nonno dell’autrice, il partigiano romano Renato Mordenti, avvenuta quando aveva 30 anni, nel 1952, per mano di sua moglie Maria Luisa. Secondo: è una storia che, per come si è svolta, si riverbera nel presente, allunga le braccia fino ai giorni nostri attraversando più di 60 anni, arrivando a coinvolgere le vite e i pensieri di chi è venuto dopo. Terzo: a essere chiamati in causa, nel ricordare questa vicenda, non sono solo i familiari dei protagonisti, ma noi tutti, quel «pezzo di mondo che infine è il nostro».

 

È forse quest’ultimo elemento che rende così affascinante questa particolare biografia di Rosa Mordenti: una biografia che abbraccia tutti noi, che parte dall’intimità della sua famiglia per intrecciare questa storia con la Storia, che ci porta a correre sulle strade romane accanto al giovane nonno, intento ad azioni di rivolta contro i tedeschi invasori, impegnato nella Resistenza al fianco di personaggi che costituiranno l’ossatura di questo movimento e del panorama politico immediatamente successivo. L’autrice ci prende per mano e ci conduce attraverso una Roma stratificata, dove i livelli storici e affettivi si sovrappongono e si intersecano, uniti insieme da quel filo tanto flebile quanto importante che è la memoria.
Un filo che Rosa Mordenti ha dovuto recuperare e seguire con fatica uscendo dalle mura domestiche. Per parlare di questa vicenda, per poter arrivare a ricostruire la persona di suo nonno, la giornalista non si è potuta rivolgere ai propri familiari, ma è dovuta andare nelle biblioteche e nelle emeroteche, ha dovuto rileggere gli articoli scritti da Renato (anch’egli giornalista, collaboratore dell’Unità) e da chi lo conosceva, ha dovuto visionare filmati e interviste, ha dovuto frugare le carte di un processo che – come accade anche oggi – fu anche processo mediatico.

E da questa immersione nell’oceano di tracce e reperti, l’autrice ne riemerge con un libro che si fa corale, tentativo di far risuonare voci passate che meritavano di essere recuperate. Senza cambiare i fatti, senza edulcorare la vicenda per cercare di mitigare la colpa di una nonna da lei tanto amata e adorata fino alla morte, avvenuta poco dopo la scoperta, da parte della nipote diciassettenne, di questo pezzo di storia.

 

«Quando ho iniziato a interessarmi alla vicenda per scriverne, quando mano a mano recuperavo i frammenti di questi eventi, ho cercato subito di non giudicare, perché io ho amato profondamente mia nonna, un amore che è rimasto immutato nonostante tutto»: così ci racconta Rosa Mordenti, incontrata in occasione della prima edizione di InQuiete, il festival di scrittrici a Roma dove l’autrice ha presentato la sua opera.

 

Da quando mio padre, in un viaggio in auto, si è lasciato sfuggire quasi per caso che mia nonna era stata in prigione, sono passati 20 anni: da allora ho avuto molto tempo per pensare a questa storia, per capire se fosse il caso di raccontarla o no.

 

E alla fine, nonostante il sottotitolo del libro reciti «La storia indicibile di un partigiano e di chi lo uccise», la vicenda è stata narrata: «Non credo davvero che esistano storie indicibili. Il problema semmai è come raccontarle. Prima di tutto ti devi dare il diritto di farlo, e poi devi cercare di agire con rispetto».

 

Per riuscirsi, Rosa è entrata nella complessità di questa vicenda sospendendo ogni giudizio e collocandola nella Storia:

 

Soprattutto, ho cercato di capire chi era stato lui, mio nonno: quando non si può raccontare la morte di una persona, allora non puoi raccontarne neanche la vita. Lui quindi, visto che l’argomento era stato sepolto dalla mia famiglia, non era mai stato raccontato davvero.

 

Un tabù che solleva un quesito, una domanda che spesso scrittori e giornalisti si trovano a dover affrontare quando trattano argomenti così delicati, tanto più se li riguardano così da vicino: è giusto o no scrivere un libro su una vicenda del genere, taciuta per anni da chi ne è stato direttamente coinvolto?

 

Sì, penso che sia stato giusto, proprio per questo: per raccontare lui e per dare un pezzo di complessità della vicenda. Anche per pudore questa storia non era stata raccontata, perché per chi l'ha vissuta non era facile riviverla. Forse io, in quanto nipote, avevo la giusta distanza da tutto questo per poter affrontare la cosa. Quindi forse sì, era arrivato il momento giusto.

 

Nel ricostruire questa vicenda, Rosa si è imbattuta anche nelle carte del processo seguito all’omicidio e negli articoli di cronaca che hanno affrontato la questione. Il quadro che ne emerge, un po’ un termometro del giornalismo di allora, è desolante e preoccupante, perché in oltre 60 anni di storia poco è cambiato: «Mia nonna ha subito un vero e proprio processo mediatico in quanto donna prima ancora che colpevole. Cambiavano le testate, ma lei veniva raccontata allo stesso modo, toccando elementi che poco c’entravano con l’omicidio: male, esattamente come accade oggi. Non c'è stata nessuna evoluzione da questo punto di vista».

Seguire le tracce e recuperare i pezzi del mosaico non è stato poi così difficile: di materiale per arrivare a capire chi fosse il nonno e l’amore che l’ha legato a sua moglie ce n’era in abbondanza, tra testi scritti e testimonianze dei suoi compagni partigiani. Il problema principale di tutto questo lavoro, semmai, «è stato ritrovare la mia voce in mezzo a tutto questo materiale, sistemarlo senza esserne soffocata, tenere un filo mio che riuscisse allo stesso tempo a presentare questa storia unendo fili narrativi diversi, che è un po' la caratteristica della collana di Wu Ming 1. Ho potuto mischiare questa molteplicità di visioni senza dover per forza scegliere se spalmare tutto sulla mia voce o se annullarla per dar loro spazio».

 

Ma prima di farla esprimere, questa voce, è stato il momento di indagare, di andare a fondo: «Ho scavato con le mani in una materia dura, stratificata, che è stata viva, come un’archeologa inesperta al centro di una città antichissima» si legge nelle ultime pagine del libro. E cosa c’era lì sepolto?

 

Non la verità – ci spiega Rosa – perché ne ho trovate molteplici, più d’una. Ancora oggi non so perché mia nonna ha fatto quello che ha fatto, ma sinceramente non mi interessa, non era quello lo scopo del mio cercare: volevo dare solo un po' di spazio a tutte quelle voci che hanno parlato di ciò, cercando di capire prima ancora che di giudicare. Ho seguito le tracce di questa città, che è stratificata e offre una miriade di percorsi, e ho trovato quello che cercavo: in primis volevo lui, mio nonno. Volevo raccontare la sua vita, non solo la sua morte terribile dietro cui era sparito. Volevo capire chi fosse lui andando oltre a quell’orribile storia.