Memorie divise. [Postille a La Controfigura]

A un paio di amici
È arrivato il momento di salutarci. Eduardo raggiungerà alcuni suoi amici [...]; noi tra non molto, dopo pranzo, torneremo all’ostello a prendere gli zaini e poi raggiungeremo la stazione, dove proverò sollievo e dispiacere. Penso che la colpa sia mia, del mio rancore, del mio disagio. Devo crescere: viaggiare per il mondo, leggere libri, studiare per gli esami, fare politica, fare sesso. Non sono sicuro che ti rivedrò, Eduardo Rózsa, anche se te lo prometto, anche se tutti e tre promettiamo di tenerci in contatto, e siamo sinceri. Ci abbracciamo; sembra che Eduardo sia tornato una sola persona, un solo corpo che ci vuole bene. Lo salutiamo ancora dal vetro posteriore del tram mentre scivoliamo via sui binari: una figura sempre più piccola che ci saluta agitando le braccia e si congeda per sempre sollevando il braccio sinistro a pugno chiuso.
1. La Controfigura
È arrivato il momento di salutarci. Eduardo raggiungerà alcuni suoi amici [...]; noi tra non molto, dopo pranzo, torneremo all’ostello a prendere gli zaini e poi raggiungeremo la stazione, dove proverò sollievo e dispiacere. Penso che la colpa sia mia, del mio rancore, del mio disagio. Devo crescere: viaggiare per il mondo, leggere libri, studiare per gli esami, fare politica, fare sesso. Non sono sicuro che ti rivedrò, Eduardo Rózsa, anche se te lo prometto, anche se tutti e tre promettiamo di tenerci in contatto, e siamo sinceri. Ci abbracciamo; sembra che Eduardo sia tornato una sola persona, un solo corpo che ci vuole bene. Lo salutiamo ancora dal vetro posteriore del tram mentre scivoliamo via sui binari: una figura sempre più piccola che ci saluta agitando le braccia e si congeda per sempre sollevando il braccio sinistro a pugno chiuso.
Fu l'ultima volta che lo vidi vivo e comunista.
Ci aveva scortato per le vie, i ponti, i parchi di Budapest. Come la più fascinosa delle guide, ci aveva sedotti in chiese, bagni turchi, sinagoghe, musei, osterie. Ci aveva invitati a casa dei genitori. Ci aveva portati in camera sua a cantare vecchi dischi e leggende. Era un istrione, il leader dei giovani comunisti della sua antica università. Un comunista eretico, speravo. Uno che coltiva l'ambizioso progetto di ristrutturare i ruderi dello stalinismo, mi correggevo. Una brodaglia di socialismo autoritario, religione, nazionalismo, mi concedevo di pensare ascoltando certe sue uscite che non sembravano soltanto uno scherzo.
2. La memoria di Mario
Alberto pubblicò un libro che parlava di me.
Era un romanzo che girava intorno alla vita di un certo Eduardo Rózsa Flores, nato e morto in Bolivia, cresciuto in Ungheria: uno stravagante socialista poliglotta da giovane, poi agente segreto, giornalista, soldato, poeta, attore. Facciamola breve: l'ambiguo Eduardo Rózsa dopo la caduta del Muro era degenerato in un avventuriero sempre più simile a un fascista.
D'accordo, è fin troppo evidente, il romanzo di Alberto raccontava le vicende di questo Eduardo, spina dorsale del libro, ma la voce narrante, che si offriva al lettore, si diceva, come alter ego dell'autore, rovistava nelle viscere, nelle memorie dolorose di un'altra vita. La mia vita.
«Non lo capisce nessuno che parlo di te», mi rassicurava Alberto. «Il lettore si gira dall'altra parte. Semplici allusioni, uno sfondo».
«Sfondo quel porco...», imprecavo al telefono: «E allora perché ne parli?».
«Mi sono spiegato male, scusa», rispondeva Alberto. «Non parlo davvero di te. Il libro si potrebbe definire una polibiografia, l'autobiografia di un altro... È un modo per parlare di tante persone, non solo di amici, non solo di noi».
Ci conosciamo dalle scuole elementari, io e Alberto: giocavamo ai giardini pubblici, siamo stati compagni di banco alle medie. Alle superiori frequentavamo lo stesso liceo scientifico, ma le nostre vie cominciarono a separarsi. Lui ha studiato letteratura; io no, mi sarei vergognato. Sono un biochimico, un ricercatore, lo sono da tanti anni ormai: lavoro sulla materia organica, sogno in inglese. Non ho mai avuto il vizio di ravanare, come Alberto, nei traumi della nostra minore età.
«Parlando di te, che sei un caso... un caso limite, parlo di tutti», si sentiva in dovere di dire.
«E allora di che cazzo parla il tuo libro?», gli ho chiesto l'ultima notte – viviamo in fusi orari diversi – l'ultima notte che mi ha telefonato.
«Parla di uno che ha sbagliato vita perché non aveva buoni amici», ha concluso.
La verità è che Alberto non riesce a rassegnarsi all'idea che io non mi impegni in politica, nella sua politica. Che mi ostini a scavare nella mia miniera, la materia organica, ogni santo giorno per il bene di tutti.
3. I merli di Càrpani
«Càrpani!», dice Luisa. Anzi, mi prende in giro, lo grida sottovoce.
Carpani è la guida turistica, ex docente di Storia dell'arte, che nella primavera 2008, lo ricordo bene, era l'anno in cui diventai insegnante di ruolo, accompagnò me e la mia classe per le strade del centro di Bologna, fino a piazza Maggiore, dove ci disse che i merli dei palazzi medievali, gli alteri merli guelfi e ghibellini di vedetta intorno alla piazza – colpo di scena – sono posticci, sono stati aggiunti in epoca recente. L'autunno successivo, una domenica pomeriggio, traversando la piazza con mia moglie Luisa, incrociai una donna e un uomo – un uomo che, senza dubbio, ora lo so, alla guida turistica non somigliava affatto.
Non mi frenai. Una scintilla, un crepitio sulla miccia. Esplosi quel nome a piena voce. Un vigoroso, convinto, sdrucciolo: «Càrpani!».
E così da quel giorno Luisa lo ripete come una formula magica, con un mezzo sorriso, a voce più bassa, imitando la mia inflessione protesa, cordiale, urbana, quando presume che io abbia scambiato una persona per un'altra.
Mi corressi subito, quella volta in piazza Maggiore, sotto i merli di palazzo dei Notai. Ricordai nome e cognome del viso abbronzato che sorrideva: baffi virili, capelli neri laccati, giacca blu, cravatta regimental. Un rappresentante di libri scolastici della prestigiosa casa editrice bolognese. Mi scusai, mi presentai a sua moglie, presentai mia moglie: una stretta di mano e addio per sempre.
4. La memoria di Paco
La memoria condensa, sposta, ricalca: volti, amuleti, nomi, ferite, cicatrici.
C'era uno scrittore messicano che aveva una cicatrice in fronte: «La vedete questa? Nel 1968 ero a Città del Messico in piazza delle Tre culture. Ricordo perfettamente la folla, i lacrimogeni, il poliziotto con lo sfollagente, io che fuggivo. Lui, il poliziotto, mi inseguiva, riusciva a colpirmi qui, mentre io svicolavo... Bene. Una sera raccontavo la storia a degli amici francesi. Mia madre ci ascoltava dalla cucina, preparava il caffè. A un certo punto non ce l'ha fatta più e ha sbottato: Che cosa dici, Paco? Ma se sei caduto dal seggiolone a sette mesi».
Uno scrittore italiano riferiva così – o almeno così lo rammento – l'aneddoto dello scrittore messicano. Lo portava a esempio di un falso ricordo. Non ho approfondito, si parlava d'altro, allo scrittore italiano non ho fatto domande. L'ho dimenticato per mesi e mi sono ricordato per caso, conversando al telefono col mio amico Gianluca.
«Facciamo presto a dire falso, errore, sbagliato», distingueva Gianluca, maestro elementare e storico. «Bisogna capire in che modo è falso. Come si sbaglia. Dov'è l'errore. Bisogna valutare l'errore. Gli errori non vanno contati, vanno compresi».
Lo scrittore Paco era convinto di portare i segni della repressione, e magari non aveva torto. Non è chiaro che cosa sarebbe falso nel suo ricordo: la presenza in piazza, la botta dello sfollagente in fronte, la datazione della ferita. Forse Paco aveva ricevuto colpo su colpo, la ripetizione del trauma non aveva lasciato una traccia, una traccia visibile, perché la cicatrice già c'era.
5. La memoria di Alberto
Mi capita di dubitare della mia memoria. È giusto che sia così, ma di solito ho torto.
Ero alla stazione di Castelfranco Emilia in una limpida mattina di dicembre. L'aria era mossa, fredda, asciutta. La luce, di un'intensità così insolita nella nostra pianura, non si polverizzava, ma incideva i contorni delle case, delle scoline, dei pioppi in filare. Tornando a Bologna avrei rivisto la neve in vetta al Cimone e al Corno; sul lato opposto, dal finestrino, avrei provato a distinguere il profilo delle Alpi.
Sono seduto, mi guardo i piedi, aspetto il treno, sento che arriva. Alzo la testa. Alzo la testa e vedo una faccia che riconosco. Una faccia già vista e inaspettata, famigliare e strana.
Josh!
Quello è Josh. Josh Worthy, lo studente del Wisconsin.
Studiava a Bologna qualche anno fa, si discuteva di politica, si iscrisse al circolo, era il ragazzo di Silvia, la compagna di stanza della mia ragazza. Mi prestò un libro di Kurt Vonnegut, Perle ai porci...
No, mi sbaglio, non può essere Josh. Ha una faccia seria, assorta, troppo seria. Josh, quello vero, sorride, è loquace: «Non sta zitto un momento. Non gli sembra educato», diceva Silvia.
Che cosa ci fa Josh a Castelfranco Emilia? Non è possibile, è tornato da anni negli Stati Uniti. Lo guardo, non mi guarda, non mi vede. Se fosse lui, mi guarderebbe in faccia, mi riconoscerebbe. No, non può essere Josh.
Torno a casa. Cerco Josh Worthy in rete. Eccolo, è lui, c'è la sua foto. Il Josh validato è un sociologo che insegna alla Columbia University. Si occupa di economia, fabbriche; vedo che ha pubblicato articoli sull'industria italiana. Trovo la mail, gli scrivo, gli racconto che ho visto il suo sosia in una piccola stazione tra Modena e Bologna. Aspetto una risposta, ormai sono quasi sicuro.
«Sono a Bologna», mi risponde.
Era lui. Visita fabbriche della pianura emiliana: una ricerca sull'industria meccanica... Ci diamo un appuntamento, ci vediamo al Sesto senso, un locale a due passi da piazza Verdi.
Il sosia di Josh era Josh per davvero. Non uno studente, un professore. Un uomo più vecchio, più serio, silenzioso, alla stazione di Castelfranco Emilia in attesa di un treno: lo stesso convoglio, la stessa destinazione, come due estranei.
6. La memoria di Luigi
Luigi Lollini ha pubblicato nel 2018 un romanzo che parla di Eduardo. Luigi incontrò Eduardo per l'ultima volta a Budapest nell'estate 1989. Nei mesi, negli anni successivi si scrissero cartoline, parlarono al telefono. Si persero per strada molti anni fa. Luigi ha rivisto Eduardo, in foto, solo nel 2008, poco prima che Eduardo morisse; l'ha rivisto in foto e filmati dopo la sua morte.
Nel romanzo il narratore Alberto, alter ego dell'autore Luigi, racconta di avere incontrato Eduardo ancora una volta a Venezia. Nel descrivere questo incontro, una finzione romanzesca, l'autore condensa informazioni tratte dalla propria memoria e da fonti di vario genere. Nella realtà da cui ora vi scrivo, come ho già detto e come l'autore narra nel libro, Luigi e il suo amico Daniele salutarono Eduardo a Budapest e non lo incontrarono mai più. Così risponde Luigi a chiunque glielo chieda, perché questa è un'affermazione verificabile, una verità che Daniele, suo compagno di viaggio in Europa orientale, può confermare. Infatti, da qualche parte nel mondo, in un archivio ungherese, nel cassetto in cui Luigi conserva il vecchio passaporto vistato, i biglietti ferroviari, le cartoline di Eduardo, si possono trovare documenti che provano il viaggio e la presenza di Luigi in Ungheria.
Diciamo meglio. Siamo sicuri che Luigi e Daniele abbiano visto Eduardo a Budapest nell'agosto 1989. È altrettanto certo che manchino le prove di un incontro negli anni successivi. Però c'è un problema. L'autore è persuaso di avere incontrato Eduardo a Bologna, per caso, in anni recenti: «Non è venuto a trovarmi, non l'ho ospitato casa, non abbiamo nemmeno parlato... Però credo di averlo rivisto», dice Luigi.
Nel romanzo Luigi ha preferito inventare un incontro a Venezia piuttosto che raccontare un incontro casuale, a Bologna, che non riesce a datare e a situare con precisione.
«Le incertezze della memoria finiscono per irritare chi legge. Troppi non so, forse, credo, troppi avverbi, troppe negazioni nella stessa frase stancano il lettore», sostenevano i redattori della casa editrice.
A dire il vero l'autore si era censurato in anticipo, aveva preferito omettere l'episodio dell'incontro a Bologna: una testimonianza che io, Alberto, il narratore del romanzo di Luigi, ho deciso di riferirvi così come Luigi me l'ha raccontata.
7. La versione dell'autore
Non sono sicuro di niente, ma credo di averlo visto. Sono indeciso fra due luoghi che si somigliano: due laterali di via san Vitale, in pieno centro storico, vicino alle Torri. Era una sera d'estate. L'ho incontrato fuori dal cortile di vicolo Bolognetti, l'anno in cui avevano impaccato nel cellophane il chiostro come un trancio di carne... Ma è più probabile che lo abbia incontrato nell'altra traversa di san Vitale, più vicina alle Torri. Si inaugurava il locale della sorella di Valentina e così Valentina era venuta da Milano con altri nostri amici, due ragazzi che studiavano a Bologna negli anni Novanta: «Ho appena scoperto il bello di non buttare la posta vecchia», mi ha scritto. «Era venerdì 3 novembre 2006, la sera dell'inaugurazione... Luca un annetto dopo è tornato a Macerata, dove ha procreato tipo due figli. Anche Lello è tornato a Genova, e credo che ci stia ancora».
Eduardo, il sosia di Eduardo, non procedeva da solo. Lo accompagnava un manipolo di giovani maschi, una piccola schiera di giovanotti coi capelli corti, sbarbati, in abiti sobri, puliti, stirati. Quei loro indumenti, quei colori scialbi, mi sembrava di riconoscerli. Vetrine che vedevo da bambino, negli anni Settanta, nel mio quartiere alla periferia di Bologna. Contadini inurbati, paesani alla festa, nonni in villeggiatura sugli Appennini, tra i boschi e i calanchi, sulle terre argillose e sabbiose che in gioventù avevano faticosamente solcato. Negozi dell'Europa orientale prima della caduta del Muro, vestiti senza griffe, gente che si nota perché non si fa notare, sfumature di beige e di bigio e di ghiaccio, mimetismo, uniformi senza mostrine, militari in libera uscita.
Sono soldati, pensavo; o magari una banda di rapinatori balcanici in ferie che ha deciso di farsi una gita a Bologna invece di assaltare un furgone blindato in Romagna.
Però c'era qualcosa che si imponeva al centro del mio sguardo, addosso all'uomo meno alto, senza dubbio il più vecchio e autorevole, anche se a prima vista si mostrava levigato, glabro, liscio quanto gli altri. Eduardo aveva il capo coperto da un basco, un basco di cui non riesco più a ricordare il colore. Nero, bordò... Nella mia mente si affollano immagini, ricordi vicini e remoti, copie della copia si sovrappongono: il basco che comprai con Riccardo a Bilbao nell'estate del 1992, la foto in bianco e nero di Mario Boccia che ritrae Eduardo nel settembre 1991 a Osijek, la copertina arancione – no, mi sbaglio – la copertina vermiglia del libro, che piace tanto ai miei figli.
Devo dire la verità. Dico la verità. Una verità approssimativa che può essere l'errore o il fallimento della memoria.
Sotto la luce fioca dei lampioni ricordo un basco chiaro, color sabbia o grigio chiaro: lo stesso colore dei vestiti, o quasi, il colore di un paesaggio spoglio, nevoso, rami senza foglie, ciottoli sulla riva di un fiume, acque torbide, autunno, inverno, bruma, spiazzi di cemento, muri scrostati, tralicci, rovine golenari, rottami recenti, metallo opaco, nuvolaglia plumbea. E la faccia, la faccia, per dio, quel muso duro, inespressivo, vorrei dire famigliare e spaventoso, era quello di Eduardo, un Eduardo che stentavo a riconoscere.
Si rivolgeva ai camerati in una lingua che non riuscii a distinguere. Non in inglese, non in spagnolo. Ora potrei dire in croato, ma allora pensai soltanto che la banda veniva dall'altra sponda dell'Adriatico. Si mostravano calmi, disciplinati; sembrava gente che di solito non attacca briga, che sa colpire e ritirarsi come un uomo solo, come le dita di una mano chiusa.
In italiano Eduardo domandò qualcosa a un ragazzo che fumava davanti all'entrata del locale. Lo riguardai in volto, ma il suo sguardo scivolò su di me e su chi mi stava intorno senza un minimo scarto a cui potessi appigliarmi per rivolgergli parola. Ci pensai, esitai, preferii tacere: non mi sembrava il caso di guardarli, di frequentarli a lungo; e poi no, non era lui, quell'uomo non poteva essere Eduardo.
8. La memoria di Eduardo
La memoria di Eduardo posso solo immaginarla.
Dubito che uno psicologo lo avrebbe portato a esempio della capacità di integrare nel presente i traumi del passato. Se mai Eduardo ha cercato di dare una forma alla propria vita, se nella parola e nell'azione ha mai tentato di plasmare una figura che contenesse il proprio passato, presente, futuro, sono convinto che quella forma, quella figura, non poteva e non può essere vera. Di certo non volevo, non voglio che sia anche la mia.
In noi portiamo una traccia di tutti coloro che ci sono stati amici, a lungo o magari per un breve lasso di tempo, insegnava un nostro antenato. La memoria di Eduardo è inaccessibile, ma nella sua memoria, persa per sempre, così come da qualche parte del mondo, c'è qualcosa o qualcuno che Eduardo fu e poteva essere.
Anche per quell'uomo e per quella donna ho scritto. Spero che a quell'uomo e a quella donna arrivino le parole che a Eduardo non posso dire qui e ora.