La speranza è nei maialini selvaggi - Sergio Cattani da Saluteducazione

Dal sorriso inquietante e artificiale di Farinetti al vello di verro, il passo è breve. Il libro di Wolf Bukowski La santa crociata del porco (ed.Alegre, 2017) continua, approfondisce ed allarga quello sguardo critico da entomologo della narrazione in campo alimentare, sociale, economico, politico già iniziata nel precedente La danza delle mozzarelle. Stavolta però, anziché passare in rassegna i principali storytellers del ramo alimentare italiano (Slow Food, COOP e Eataly) si è scelto un framing differente, ovvero prendere un tipo di alimento ed approfondirne gli aspetti simbolici, scientifici, religiosi e l’uso che se ne fa attualmente sui principali media, a scopi commerciali e/o politici (che poi, vista la politica attuale degli spin doctors, la differenza non è poi tanta).
Il maiale imposto
“La soluzione per me è semplice: da domani maiale a colazione, pranzo e cena. Chi non lo gradisce può tornare da dove è venuto”. Così sentenziava Filippo Degasperi, consigliere provinciale M5S in Trentino, il 6 gennaio 2016 commentando il sit-in (dai giornali trasformato in rumorosa protesta) per problemi legati alle forniture alimentari, da parte di alcuni richiedenti asilo nel centro di accoglienza di Marco, a Rovereto. Ma questo è solo il più recente e vicino (dal momento in cui chi scrive abita a Trento) degli esempi che vedono il maiale ergersi, o meglio, venire eretto a simbolo nazionalista. Poco prima il porco crociato aveva le sembianze di un simpatico gioco di plastica nel cortile di una scuola materna di Rovereto, e un’altra volta la sua carne riempiva i panini lanciati a migranti affamati nelle propaggini orientali dell’Europa. E infine, o peggio ancora, si auspiacava decapitato e conficcato su pali di legno, a difendere suo malgrado questi stessi confini. Il consumo (o meglio, la fruizione) di maiale imposto come lasciapassare per la società civile occidentale, come simbolo di modernità e adeguamento alle nostre tradizioni.
Il maiale negato
Nel secondo capitolo del libro si esplorano i motivi che portano all’astensione dalla carne suina. Nell’ebraismo il maiale tradizionalmente è taref, ovvero proibito, così come per i musulmani è haram. Cosa ha portato a questi divieti? Perchè la tradizione di queste due grandi religioni, a differenza del cristianesimo, ha portato ad escludere un animale molto diffuso dalle tavole dei credenti? Bukowski per scoprirlo approfondisce le varie tesi a supporto dei maiali taref e haram, scoprendo che probabilmente il vero motivo non è estraneo alla dialettica città-campagna, dal momento in cui il divieto avrebbe in passato impedito ai contadini di avere una sicura fonte di cibo e reddito. Ma sopra questa spiegazione legata agli equilibri politico-economici che hanno segnato la storia delle religioni, si sono affastellate svariate versioni: positiviste, reazionarie, sociologiche, tutte caratterizzate perlopiù dalla tendenza ad assolutizzare i comportamenti umani, astraendoli dai contesti in cui sono stati generati. Anche le prescrizioni religiose legate al cibo hanno una connotazione “politica”, anch’esse sono “a scadenza” e suscettibili di cambiamenti. Così, astenersi dal maiale può essere “religioso”, così come non astenersi, né dal maiale né da nessun altra carne. E se il mercato lo richiederà, sarà il bollino (halal, kasher, biologico, vegan) a certificare la commestibilità degli alimenti, con buona pace della storia e della comunità.
Il maiale sterminato
Ogni minuto trentacinque maiali sono uccisi, più di duemila al minuto, un miliardo e cento milioni l’anno. Lo sterminio è quotidiano, indifferenziato, continuo, sistematico. Chi li paragona a campi di concentramento ne ignora l’obiettivo: non il genocidio, ma il profitto. Sull’organizzazione perfetta dei macelli di Chicago Henry Ford plasmò la catena di montaggio dell’industria automobilistica. Ed è qui che il maiale incontra il modo di produzione capitalistica, ne rimane stritolato, oppure stordito, infine ucciso, squartato, impacchettato e venduto. Il mercato lo desidera e ne garantisce la perpetuazione, affinché il profitto rimanga concentrato nelle mani dei pochissimi padroni dell’industria della carne globale. Ed è questo il motivo principale per schierarsi contro il consumo di carne: combattere il capitale e l’organizzazione sistematica dello sterminio dei maiali messo in piedi per il guadagno di pochi. Perché la ricchezza sociale, animale e ambientale che esso richiede è parte fondante e necessaria delle vite di tutti noi (con buona pace del consumatore consapevole che cerca di spingere gli ingranaggi nella direzione opposta, con la miseria della sua spesa intelligente).
In conclusione
Il libro di Wolf Bukowski rappresenta un’analisi precisa e argomentata del portato simbolico, politico ed economico del maiale, che si potrebbe estendere anche ad altri cibi (sebbene non siano molti quelli così radicati nella nostra cultura al punto da dividere su consumo e astensione). Quello che ne esce è un quadro a tinte fosche della storia del capitalismo e di come il suo passaggio abbia lasciato forti segni nella storia, soprattutto dal ‘900 in poi. La capacità di affondare il coltello nelle contraddizioni contemporanee di chi costruisce narrazioni tranquillizzanti su fondamenta di sfruttamento e sterminio è notevole e apre gli occhi sul mondo in cui viviamo e la direzione in cui siamo diretti. Ciò che forse lo distingue maggiormente dal libro precedente è la nota di apertura ottimistica e speranzosa nel finale, quando lo scrittore si affida alla capacità di ribellione e “ritorno al selvatico” dei maialini, una volta che hanno rotto le catene della schiavitù e gli steccati in cui erano rinchiusi. Come lettore non posso altro che auspicare di diventare uno di questi porcelli selvaggi e trovare il modo di avversare lo sfruttamento delle vite in un mondo domitato dal mercato e dal profitto, magari associandomi solidalmente con altri maiali, preferibilmente non crociati (santi semmai).
Fonte: Saluteducazione