Il dicibile e l’indicibile di una storia

Al centro di una città antichissima
La storia indicibile di un partigiano e di chi lo uccise
Pubblichiamo di seguito l’analisi sorprendente e appassionante di Al centro di una città antichissima che ci giunge dal professor Nicola Siciliani de Cumis, che ringraziamo di cuore.
Ordinario per decenni della cattedra di pedagogia alla Sapienza di Roma, studioso di Labriola e Makarenko – il padre della pedagogia sovietica autore del Poema pedagogico – Siciliani de Cumis si interroga da molti anni sulle conseguenze del carcere sui figli dei detenuti e sui bambini che, a loro volta, fino a tre anni vivono in carcere con la madre detenuta. Ora coordina due laboratori di scrittura e lettura nelle carceri di Regina Coeli a Roma e Ugo Caridi a Catanzaro. Il testo che segue è indirizzato ai suoi colleghi del laboratorio, ma noi – con il permesso dell’autore – siamo felici di pubblicarlo sul nostro blog.
R. M.
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Perché
Perché questa storia, “indicibile”, di Rosa Mordenti – Al centro di una città antichissima. La storia indicibile di un partigiano e di chi lo uccise. Prefazione di Alessandro Portelli, Alegre, Roma 2017, pp. 96 – mi appare come una storia tanto moralmente laboriosa quanto letterariamente ben risolta, di cui però non sono certo di potere dire tutti i “perché”? A cominciare da quei “perché” che potrebbero o non potrebbero interessare a colpo sicuro (come mi piacerebbe) gli studenti del Laboratorio di scrittura e lettura di Regina Coeli di Roma e della Casa Caridi di Catanzaro (Siano), miei primi interlocutori.
Sono alcuni mesi che, per motivi di salute, non li incontro; e tutti loro, sia a Roma sia a Catanzaro, sono attualmente impegnati in altre attività culturali molto degne. Vanno quindi assecondati in ciò che stanno già facendo in proprio come individui e come gruppo; e gradualmente predisposti ad entrare, ma senza fretta, in un altro ordine di idee in sé scientificamente molto affascinante e didatticamente assai suggestivo, ma occorrerà vedere quanto immediatamente funzionale ad essere positivamente recepito dai virtuali destinatari.
Se decido però adesso di prendere qualche appunto ai margini del testo di Rosa Mordenti, è perché terrei a consultarmi, secondo le nostre consuetudini, con i colleghi del Laboratorio... Il prossimo anno, una volta assolti gli impegni presi per i mesi di novembre e dicembre, ne potremo forse parlare con la dovuta calma. Ma, visto che io mi sarei attivato, perché non cominciare a rendere partecipi fin d’ora i colleghi delle mie intenzioni future? Magari, se la scrittrice potesse essere d’accordo, cominciando con l’invitarla ad una presentazione iniziale del libro, qui a Regina Coeli. A Catanzaro, per ragioni logistiche, la vedrei per il momento più complicata. Ma non rinunzierei a priori all’idea...
Constato d’altra parte il fatto che anche i miei “perché” scaturiti dalla lettura del libro, nei loro ambiti interrogativi ed esplicativi specifici, mi risultano alquanto problematici e, come dicevo, perfino “indicibili”. Eppure vengo ora dicendone e scrivendone qui, oltre che per continuare a dirne, anche sotto il profilo della loro “indicibilità”.
Insomma, terrei ad attestare di primo acchito nel libro un’ampia materia di attrazione critica, di effettivo spessore etico-intellettuale, esplicitamente formativa e di immediata presa estetica, che va certo al di là del saggio autobiografico, dei suoi inscindibili contenuti storici e politici e dello spessore letterario del racconto, che mi pare imporsi per l’asciuttezza dello stile, per la delicatezza e la profondità dell’impianto narrativo; e per la “rosa” delle dimensioni e suggestioni metodologiche del dicibile e dell’indicibile, che sentirei più specificamente “mie”.
A cominciare dai resoconti sulla “città antichissima” prigioniera (la Roma di sempre, ma nel novembre del 1943), che viene liberandosi dai nazisti in fuga; per continuare con i paragrafi sulla detenzione della donna (mamma e nonna Maria Luisa), protagonista del racconto. E senza tralasciare le carcerazioni e le torture e le esecuzioni capitali a iosa, rappresentate nella narrativa e nella cinematografia dell’epoca e ora oggetto di racconto nel libro di Rosa Mordenti. E non è tutto: perché una delle ipotesi (e delle tesi bell’e dimostrate del libro), è che un qualche carcere abbia pur sempre a che fare con la condizione umana... Una carcerazione certo orientata a liberarsi dalle proprie panie: e magari con un’attività di scrittura e di lettura che, mediante la “pena dell’indicibile”, la riscatti dalla “colpa del dicibile”.
Mi limiterei pertanto a riproporre in via di ipotesi alcuni motivi, muovendo dall’ultimo paragrafo del capitolo sesto del libro ("Entro nella tua pagina"), che è un’articolata sapiente provvisoria dilucidazione dei principali “indicibili” motivi d’ordine storico-autobiografico e poetico-poematico che stanno alla base del libro. La cui tenuissima, dolorosissima trama è tutto sommato ben poca cosa, rispetto alla quantità e alla qualità dei “dicibili” e degli “indicibili” soggettoggetto di narrazione peculiare.
Scrive difatti Mordenti:
Io non so mai come raccontare questa storia. La chiave per scriverne me l’ha data involontariamente un vecchio amico e maestro, una volta a pranzo. Lui la conosceva già – mi ricordo il sollievo nell’apprenderlo, perché non dovevo dire niente. Gliene aveva parlato mio zio Adriano, di cui è amico e collega da anni lontani.
Io tentennavo nel mio dire, quel giorno, cercavo le parole, lui mi ha interrotto e mi ha detto:
«È semplicemente una storia indicibile».
Ma non dire la morte di Renato ha significato cancellarne la vita – e c’è quella canzone di Ascanio Celestini che mi ossessiona e dice: «Ricordate i morti, ma ricordateli vivi». Per questo scrivo.
E ora che ne scrivo, mi sembra di aver capito cosa sia, di tutto questo, indicibile. Non certo la morte, sempre ingiusta precoce e infame, né l’omicidio, di cui si può scegliere, a seconda della convenienza, se occuparsi moltissimo e senza pietà o senza pietà tacere, come sperimentano le famiglie delle vittime del potere che cercano giustizia.
Indicibile è l’assenza. Ci si gira intorno. Ha detto Annie Ernaux: «Scriverti non è altro che fare il giro della tua assenza. Descrivere l’eredità d’assenza. Sei una forma vuota che è impossibile riempire di scrittura».
Inenarrabile è la storia di una donna colpevole, ma viva. È l’amore dei suoi due bambini, che l’aspettano per sette anni fuori dalla galera; è la ricerca delle ragioni che loro hanno immaginato per spiegarsi ciò che è accaduto. Forse è la quotidianità che hanno costruito insieme, dopo, quando lei è finalmente uscita, finalmente da soli, in altre case cambiate spesso, lontane e diverse da quella dove tutto accadde, senza più pianoforti a coda – ma con il clarinetto di Adriano –, senza soldi, incredibilmente senza rancore. (pp. 84-85)
Dunque, la storia non è semplicemente narrabile ma “indicibile” per il dolore (incredibile dictu!) di una famiglia distrutta dalla tragedia dei suoi membri. E nemmeno, di conseguenza, per il pudore che fa rima con dolore, con dissapore, malumore, tremore, oltre l’errore, l’orrore e il terrore del disonore di tutti e di ciascuno. Per i rami.
Altrimenti, la storia è altrettanto “dicibilindicibile” nel bosco e nel sottobosco degli avvenimenti storici, politici, militari, sociali, culturali, che contestualizzano il terribile fatto di cronaca del 7 novembre 1943 (stesso giorno, sul piano europeo, del ventiseiesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre secondo il calendario gregoriano). La storia interna e esterna, antesignana, di un delitto coniugale, incastonato in una Roma, città indicibilmente aperta al freddo, alla fame, alle bombe, alle fucilazioni, alle torture, all’orrore, alla morte di massa. Ma anche vitalissima sul piano intellettuale, con un giornalismo clandestino attivissimo a rischio della vita di chi lo viene facendo. Una tensione morale e politica imparagonabile, per chiarezza e impegno civile e formativo, con le “pappate” ideologiche di periodi precedenti e successivi, indicibilmente grigi, opachi, bui. Esattamente come le prigioni culturali e sociali di cui possiamo avere esperienza oggi.
Per rendercene conto, basti accennare al fatto che la narrazione del “centro” dell’antichissima città che si chiama in ballo è piuttosto una sorta di paniere concentrico di “narrazioni di narrazioni”, tenute assieme da un filo, che è la “storia indicibile”: la quale viene per così dire resa possibile dalla serie frammentata, ma non dispersiva delle storie dicibili, dette, ridette, ripensate, sentite, immaginate. A cominciare dalla corsa a rotta di collo del protagonista e dei suoi compagni di lotta su via Nazionale, che dopo avere scritto a rischio della vita sui muri le parole sovversive di invocata libertà, cercano di sfuggire al fuoco nazista e di salvare la pelle, sparendo rocambolescamente nel nulla. Una “corsa”, che è una sorta di tessera di riconoscimento o impronta digitale, incisa non a caso nell’incipit fuori testo di pagina 15 e reincisa come un manifesto nel desinit della quarta di copertina.
"La rosa è viva (una specie di prologo)" dice e ridice minutamente i termini dell’episodio, del quale chissà quante cose non dette resteranno indicibili, al di là dei testi di Antonio Gramsci, Fabrizio Onofri, Carlo Lizzani (e oltre): quest’ultimo in un video su You Tube, autore Giulio Latini e intitolato 7 novembre 1943 (2006), di 18 minuti e 43 secondi... Ma quell’episodio, detto e ridetto, attraversa e condensa evidentemente tutta la storia. E a maggior ragione se resta “indicibile”, quel fatto è insieme un abbrivio e un finale di partita: e sta proprio al “centro” della città antichissima e della storia dicibile-indicibile di quel partigiano e di chi lo uccise.
Come
La “indicibilità” della tragedia della nonna che cancella il nonno fa del resto da silenzioso contraltare alla rimbombante risonanza che ne consegue, in forza del notevole riscontro mediatico dell’evento sbandierato ai quattro venti, e poi silenziato da un agognato forzoso contraddittorio oblio. E l’autrice fornisce sui tempi e sui modi dell’exploit mediatico un saggio avvincente, lavorando di fino sulle fonti multimediali del tempo perduto, quindi ritrovato. Occhi e orecchi all’unisono, tesi al disoccultamento e al trattamento non superficiale ma sotterraneo di ogni fonte primaria e secondaria possibile: giornali, libri, radio, televisione, fotografia, arti figurative, dimensioni pubblicitarie. E musiche, musiche di ogni genere, canzoni d’autore in primo piano.
Per cui al lettore di oggi sembrerà quasi di imbattersi in qualcosa di “rivissuto” e di “parlante”. Sicché il racconto, in questo senso, più che essere un paziente, ricchissimo résumé archivistico a infinite voci, già rassomiglia a una sorta di precoce, carnosseo vitalissimo blog calato nella cronaca quotidiana accuratamente scandagliata, dibattuta, tematizzata, somatizzata e comparativamente selezionata ed estratta dai fondi di una prestigiosa emeroteca romana, che sta ancor oggi lì – informa l’autrice – a pochi passi da dove fu trovata l’auto con il cadavere di Aldo Moro.
No, l’indicibile della storia, in questo senso, è ben altro che i soli contenuti della “faccenda criminosa”. E se ne ritrova subito una palese traccia – oltre che nella dichiarazione del debito metodico-storiografico di Al centro di una città antichissima con i rifondatori della nuova storia orale (Alessandro Portelli, tra i primi) – nel dare voce alla dimensione metodologica in "Di chi sono le storie? (Una specie di epilogo)" e delle ultimissime pagine, in "Infine". E cioè nella lucida presentazione dell’originale laboratorio di scrittura e lettura di questa narrazione, mediante la progressiva acquisizione e la scelta mirata delle fonti scritte e orali. Con tanti ringraziamenti a chi ha inteso variamente collaborarvi, nella chiave dell’esergo «Il passato non solo non è morto; non è neanche passato» (William Faulkner).
Di modo che l’arte dello storicizzare narrativamente le cronache diventa essa stessa parte integrante della personalissima espressività letteraria dell’autrice Mordenti. La quale, aprendosi al futuro nella sotterranea laboriosità del racconto in pubblico, si mostra a chi la legge come una sorta di fluido e ben risolto impasto di giornalismo storiografico e di progettualità in fieri (con ascendenti, diresti, nella gramsciana “filologia vivente” e nella makarenkiana e brechtiana “drammaturgia didattica del quotidiano”). I “vuoti” della storia lasciano tuttavia intravedere ben altri solchi e dirupi: crepacci della memoria, buche anamnestiche, abissali silenzi di altri non impossibili testimoni che non testimoniano, ma che sembra via via impossibile non presupporre, interrogare, sollecitare, volere ascoltare o riascoltare. Per via di sentimento e immaginazione.
Dopo
Quel che rimane da dire, in altri termini, è tuttora virtualità (ipotizzabile deducibile, ma indicibile) dell’indotto della destinazione della dicibile storia della fortuna dei personaggi tra i lettori: di ciascuno dei propri lettori, dal proprio punto di vista. Come se la incalzante lateralità dello sguardo che ha reso possibile la narrazione della Storia indicibile di un partigiano e di chi lo uccise, dalla testualità collettiva attuale, possa ulteriormente tradursi in una sorta di illimitata contestualità collettiva, di massa, aggregata alla memoria della memoria di chi ha letto, legge e leggerà Al centro di una città antichissima.
Ciò che ne deriva è un assordante coro in sordina di mute mani bianche di non udenti, tanto affollato di coristi quanto potenzialmente popoloso potrà essere il bacino di utenza della “storia della Storia”. Al percorso collettivo di più generazioni di antifascisti che inizia nella guerra e nella dittatura passando per la lotta partigiana, la Liberazione e la Costituzione, da allora ad oggi, si allineano o si affiancano ben altri potenziali percorsi generazionali e intergenerazionali, che con le parole di Alessandro Portelli richiedono nuovi lavori
su come la memoria si rimuove e si confonde senza mai poterla cancellare del tutto, e su come il desiderio di conoscere e di conoscersi la resuscita e la ricompone (“rimembrare”) col cuore (“ricordare”) e con l’intelligenza (“rammentare”). (p. 8)
Sennonché la storia, “indicibile” com’è per chi ha avuto il coraggio del diritto-dovere di scriverla, provando comunque la pena del raccontarla, è nondimeno indicibile anche in un altro senso: da parte del lettore. E questo perché il lettore, che della storia viene facendosi attivo destinatario e partecipe collaboratore, vi interviene in considerazione di ciò che della storia gli appartiene e non gli appartiene; e che, pur appropriandosene sul piano di una lettura personale e interattiva (nei limiti del consentito dallo scrittore), non potrà sottrarsi ad una lettura partecipata, criticamente cooperativa. E quindi ad una scrittura che quanto più risulta fecondamente marginale, tanto più raggiunge i confini dell’indicibile.
Ed è ciò che dichiara la stessa Rosa Mordenti, nel preciso momento in cui racconta di essersi decisa di scrivere dell’indicibile-non-detto, per intanto confortata dalla sicurezza
di non farlo da sola, perché un libro è un lavoro collettivo, tutti i libri lo sono, e dunque è la qualità del collettivo che fa la differenza. Ma l’urgenza del racconto non è certo solo mia; e penso che questo desiderio di misurarsi con la parola scritta e con il suo potere sia in verità, per chi affronti il mestiere e il rischio, banale da dichiarare. (p. 87)
E ciò a maggiore ragione se
Il racconto è il senso, mi hanno detto. E io credo sia così. Di più, il racconto è il senso e il senso è la sepoltura, così mi hanno detto. Ma non lo so se ne avevo il diritto; non so se sia giusto, questo mio raccontare. So che c’è il diritto di non raccontare, che a volte viene da quello di non voler ricordare più. (ivi)
E mi chiedo: ma se una storia non è soltanto «nostra», come prendersi la responsabilità del lasciarla «in pace, questa storia», benché «il racconto sparga il sale sulle ferite aperte». Tant’è vero che ti hanno detto: «Non sono tue, le ferite: anche questo mi hanno detto». E tu ammetti onestamente che ciò sia vero e che ci sia «il sacrosanto diritto all’oblio, mi hanno detto» (ivi).
Ed è proprio questo il nodo: il crocicchio in cui i punti di vista si confrontano senza confondersi, si affrontano e magari si scontrano. Ma si arricchiscono reciprocamente e si moltiplicano indefinitamente. Il luogo critico in cui un nuovo “indicibile” è naturalmente portato a fare i conti con una contestuale infinità di “dicibili”. Di tanti dicibili/indicibili occorrenze, quante sono i lettori pronti a “dire” e a “non dire”, alla presenza dell’altro, in contraddittorio con l’altro.
E questo, fino al punto di una qualche possibile condivisione della storia, da parte del lettore. Produzione intellettuale dal co-scrittore “altro” dallo scrittore: “Di chi sono le storie?”. Ecco di chi sono: di chi le scrive, ma pure di chi le ha lette, le legge e le leggerà. Di chi le “vuole”. Né si può mai dire chi le dirà e le ridirà, le storie, se pure “indicibili”. Chi le racconterà. Chi ne spiegherà, dal suo punto d’osservazione, il non detto e l’indicibile a dirsi. Che si dirà o non si dirà. Ma che rimane là, indicibilmente in attesa d’essere dicibilmente detto.
A ciascuno la propria esperienza in merito. E di metodo. Come ben sa Rosa Mordenti:
Quando le cose vanno come devono andare, sono le persone – con la voce gli occhi le mani – a porgere i loro ricordi. Quando non accade e non può accadere – non più, o non ancora –, i ricordi si può trovarli a volte – se si ha fortuna – in archivi freddi d’inverno e caldi d’estate, con le sedie scomode e i tavoli grandi, e lì devi essere capace di seguire la tua traccia di memoria come un segugio con il naso sulla terra, senza distrarti e senza perderti, perché le storie sepolte, quando vengono riportate alla luce, poi si intrecciano, si allargano, si richiamano l’una con l’altra, sconfinano come a formare una mappa bellissima e molto grande – ma nessuno te le porge. Ho scavato con le mani in una materia dura, stratificata, che è stata viva, come un’archeologa inesperta al centro di una città antichissima; e mi sono sentita a volte come un bambino a caccia di fossili su una parete di roccia. Ne ho trovato qualcuno stupefacente. (p. 88)
Queste le ragioni per cui in Al centro di una città antichissima non trovi unicamente ed esclusivamente La storia indicibile di un partigiano e di chi lo uccise. Ci trovi invece l’indicibile, sterminato grappolo delle interlocuzioni e interconnessioni biografiche ed autobiografiche che affiorano o non affiorano (ma che spesso e volentieri si possono sentire immaginare), capitolo per capitolo, ad ogni paragrafo, ad ogni pagina del romanzo-verità o, meglio, del romanzo tout court (come giustamente sostiene Portelli nella conclusione della sua Prefazione): giacché «il libro che abbiamo fra le mani è un romanzo nel senso più pieno del termine; perché parla soprattutto di quello che non si vede ma che ci portiamo dentro» (p. 11). E che potremmo tirar fuori.
Di quello che, come donne e uomini, saremmo capaci di progettare di noi stessi, quali “autori” ed “eroi” del romanzo: che, in questo senso, si propone come un romanzo di formazione. Con un contenuto umano in progress. E una scrittura che, in quanto scrittura viene facendosi via via educativa non meno che letterariamente creativa.
Una poetica, questa, meglio una poematica del laboratorio di scrittura e lettura, che come lettori–scrittori ai margini del libro (ciascuno nel suo proprio ambito di competenza) ci racconta la vita nella sua dicibilità e nella sua indicibilità, ben al di là del “giusto” e dell’“ingiusto”, del “bello” e del “brutto”, del “vero” e del “falso”, dell’“utile” e dell’“inutile”. Come gioco del “dicibile” e dell’“indicibile”. Del “narrabile” e dell’“inenarrabile”.
Per quanto, nel laboratorio di scrittura e lettura di una qualche memoria individuale e collettiva in fieri, tutti, proprio tutti – non solo gli scrittori con la patente, ma ogni uomo in quanto tale – si trovano nella condizione umana di dire il dicibile e/o di tacere l’indicibile (e viceversa). E di raccontare, ciascuno nei suoi propri limiti mnemonici, comunicativi, espressivi, poetici, in che rapporto egli stia con la fermezza e con la mobilità dei suoi personali, cangianti, dicibili o indicibili ricordi vissuti, co-vissuti, rivissuti, mai vissuti con altri esseri umani, ora partecipi ora impartecipi dei medesimi ambiti autobiografici.
Dunque formativi. Storici e politici. Euristici. Creativi. Diseducativi-educativi. Pedagogici e antipedagogici. Poematici. Ambiti autobiografici di riflessione e di azione che, nel particolare laboratorio di scrittura e lettura che è Al centro di una città antichissima. La storia indicibile di un partigiano e di chi lo uccise, più che didascalicamente “detti” e “ridetti”, sono indicibilmente “vissuti”. Esistenzialmente memorizzati, dimenticati, lasciati per il momento in disparte, per riaffiorare chissà come chissà quando. Forse.