Di cosa parliamo quando parliamo di ibridi? Riflessioni sparse su detonazioni e suture

Un torto fatto a Uno

 

Dopo la lettura di 108 metri e sulla scia del dibattito nato sul blog di Quinto Tipo mi sono chiesto a lungo se questo libro fosse o meno un oggetto narrativo non identificato, se Prunetti avesse forzato e ritorto le caratteristiche degli ibridi per come li avevamo per lo più conosciuti negli ultimi anni. La domanda non nasce da un’ansia classificatoria ma come spunto di riflessione su alcune questioni.

 

Parto dalla presa di posizione per cui alcune storie vanno raccontate a ogni costo: perché smontano delle retoriche tossiche, perché danno voce a chi non ce l’ha o a chi è stato vinto, perché gettano uno sguardo diverso sul reale. Urgenza politica da cui deriva la possibilità – la necessità – di usare qualsiasi mezzo a disposizione pur di far detonare completamente una narrazione non pacificata.

 

Tra le possibilità vi è l’innesto di fiction su strutture che partono da episodi veri e attingono dal reale (dalla storia, dalla tradizione popolare, dalla biografia, dall’oralità, dall’archivista). Si è visto recentemente soprattutto in Un viaggio che non promettiamo breve di Wu Ming 1 e 108 metri. In narrativa (a differenza della saggistica o altre tipologie testuali) si è da sempre fatto uso soprattutto – ma non solo – della finzione allo scopo di raccontare qualcosa, non celando però mai – o quasi – l’invenzione. Wu Ming 1 ha dimostrato che raccontare inventando, ma celando l’artificio sotto la pretesa di una veridicità aprioristicamente garantita dalla forma o dal genere usati, è un tradimento etico, poetico e politico nei confronti del lettore.

 

Prunetti sceglie diversamente. Sceglie di fingere di fare fiction. Nella sua ricerca sulla narrativa working class l’uso di forme ibride è funzionale a sovvertire quelle del romanzo d’invenzione canonico, genere di autorappresentazione per eccellenza della borghesia. Gli Uno permettono giochi combinatori che «sprigiona[no] una grande potenza», con cui smontare e rimontare il romanzo lasciandolo apparentemente intonso ma pervaso da elementi altri. «Rispetto ad Amianto qui l’atteggiamento è diverso: in Amianto facevo vedere di più i punti di saldatura; in 108 metri ho usato la smerigliatrice per limare quei punti. Per vederli bisogna fare la radiografia. Ci sono ma sono nascosti bene: è così liscio che sembra forgiato come un romanzo, non costruito a incastri come una non fiction», scrive Prunetti. La smerigliatrice è l’officina della scrittura: il lavoro sul linguaggio, i personaggi, le figure retoriche.

 

All’apparenza 108 metri assomiglierebbe quindi più a un romanzo che a un oggetto narrativo non identificato per come nella maggior parte dei casi li abbiamo letti finora, dove l’ibridazione – anche quando perfettamente riuscita – non era celata ma esplicitata. Ma a ben guardare per quanto privo di inserti documentali chiaramente incastonati, 108 metri è pieno di tipologie testuali che sfumano l’una nell’altra: tradizioni orali e popolari, inchiesta operaia, scrittura autobiografica, narrazione “canonica”, pamphlet pedagogico, accensioni liriche, ricombinazione linguistica del gergo del mondo del lavoro. Su questa tessitura si intrecciano generi (autofiction, memoir, reportage narrativo, letteratura di viaggio, realismo, fantastico – e non solo nella figura dell’Entità/Thatcher/Cthulhu ma anche nella prosa onirica del volo marypoppinsiano di Alberto e Kate), ma anche punti di vista, tempi verbali, salti e compressioni spaziotemporali.

 

Una struttura saldata così bene si sarebbe potuta prestare a equivoci se Prunetti non avesse mostrato la sutura attraverso alcuni stratagemmi particolari, alcuni interni al testo, altri laterali, altri ancora esterni: l’uso senza pudore alcuno del fantastico; l’amplificazione volutamente esagerata, grottesca o iperbolica di elementi di realtà, ma anche di elementi di fiction che esplodendo svelano il loro carattere di finzione; la reificazione di alcune metafore (il fantasma della Thatcher); l’“avvertenza” iniziale, nella sua stridente e intrinseca contraddittorietà che è già campanello d’allarme. Si aggiunga l’epitesto formato dall’articolo pubblicato sul blog di Quinto Tipo che svolge quasi la funzione dei titoli di coda usati in altri ibridi.

 

 

Patti chiari...

 

Il patto col lettore, che accetta consapevolmente di sospendere la propria incredulità per godere appieno di un’opera che attraverso l’uso di finzione possa restituirgli uno sguardo sul reale anche più approfondito di quanto non faccia un’opera prettamente argomentativa, va preservato per non tradirne la fiducia. Su questo si è espresso Mariano Tomatis in due suoi recenti interventi. Riferendosi ai numeri di magia parla di evocare l’effetto magico, espressione in cui ho trovato un’eco del «fare finta di fare fiction» di Prunetti: come voler evocare nel lettore l’effetto del romanzo ma allo stesso tempo «mostrare la sutura senza rompere l’incantesimo».

 

Quando Tomatis scrive del patto finzionale e dell’esperienza di meraviglia ricavata dalle pratiche illusioniste mi fa pensare a Brecht e alla sua ricerca volta a stimolare, all’opposto, effetti di straniamento allo scopo di evitare coinvolgimento passivo e identificazione acritica dello spettatore coi personaggi del dramma, per suscitare invece (tramite rottura della quarta parete, enfatizzazione grottesca o affettata della recitazione, uso di musiche o scenografie in palese stridore col dramma rappresentato, rottura palese del rapporto attore/personaggio attraverso l’uso della terza persona, ecc.) l’esplicitazione della finzione di quanto messo in scena e una maggiore attenzione analitica.

 

L’apparizione dell’Entità in Un viaggio che non promettiamo breve – al pari dello scambio epistolare con H. P. Lovecraft – e la sua ricomparsa nel libro di Prunetti, sono delle palesi inserzioni di fiction dentro delle narrazioni fino a quel momento del tutto plausibili e aderenti alla realtà. Diventano così veicoli di straniamento e causano un effetto perturbante senza però che si rompa la progressione della lettura. Anche il mago Philidor di cui parla Tomatis «per mostrare la sutura senza rompere l’incantesimo, concludeva lo spettacolo con un’apparizione talmente caricaturale da riportare tutti con i piedi per terra».

 

Talmente caricaturale. Come lo possono essere dei personaggi enfaticamente assurdi come John Silver, o descritti iperbolicamente come Renato che «si lava i denti con la mola a spazzola, si fa la barba col cannello da taglio e sul cilindro incandescente appena forgiato si cucina uova e bacon in padella». Caricaturale e grottesca come può essere l’adorazione di una mostruosa Entità/Thatcher da parte dei piccoli dirigenti di un centro commerciale.

 

Prunetti adotta varie tecniche linguistiche o narrative per ottenere questi effetti stranianti e perturbanti che mostrino la sutura. L’uso dell’assurdo, il grottesco, l’enfasi, l’iperbole, il gusto della dismisura e tutte le altre pratiche di rovesciamento tra alto e basso. L’uso di personaggi composite come correlativi oggettivi e tipi ideali. Gli aspetti parodici e le avventure spesso esageratamente incredibili delle sue ciurmaglie. La creolizzazione iperbolica della lingua dei personaggi, amplificata in direzione iperespressiva e vernacolare. L’uso elastico del tempo della narrazione che in pochi mesi condensa vari decenni reali. E soprattutto, oltre all’inserimento del fantastico, la reificazione della metafora – le immagini metaforiche che da concezione astratta si fanno realtà concreta – il cui esempio emblematico è il “fantasma della Thatcher” che da metaforico fantasma persecutore della classe operaia diventa un vero fantasma che dà tormento al protagonista e che è totalmente e plausibilmente innestato nella diegesi nonostante il suo essere grottesco e fantastico ne palesi la finzione, aggiungendo così all’elemento mostruoso un ulteriore livello di lettura. Sono tutti strumenti stranianti che rompono la quarta parete della narrativa senza rompere il patto col lettore: mostrano tutte le saldature che Prunetti ha smerigliato.

 

 

...officina lunga

 

Da tempo rifletto parecchio su come si mostri la sutura e lo faccio partendo dal doppio punto di vista di lettore ed editor. Quindi fruitore ma anche addetto ai lavori, non però scrittore ma “sparring partner” di autori e autrici, col compito di provare ad aiutare a far detonare una narrazione. Un lavoro durante il quale ci si pone continui interrogativi su come farlo: a quali domande bisogna provare a dare risposta? A quali problemi trovare una soluzione? Quali interrogativi sottoporre a chi scrive? E ancora: Come non rompere l’organicità di un testo? Come non far sembrare che ibridazioni e innesti non siano banali giustapposizioni? Cosa si accorda meglio con le tonalità e i timbri del testo? Come non annoiare o confondere il lettore ma evitando facili ammiccamenti?

 

Una delle possibilità sono i titoli di coda. Per come sono stati usati in maniera spiazzante da Wu Ming si situano in un sottile confine tra testo e paratesto. Quando comparsi a conclusione di romanzi storici – opere di fiction – si sono inclinati maggiormente verso il territorio dei peritesti. Tendo invece a considerarli pienamente parte integrante del testo quando usati in ibridi narrativi (come Point Lenana, Timira, Un viaggio che non promettiamo breve), libri che muovendo dall’intenzione di raccontare qualcosa di realmente accaduto possiedono caratteristiche del saggio, del reportage, della memorialistica, all’interno dei quali un making of che sveli fonti, citazioni, riferimenti, non è che un’ulteriore tipologia testuale, anche se posta alla fine del libro e non mescolata lungo il testo.

 

Discorso a parte si potrebbe fare per il Quinto atto dell’Armata dei sonnambuli in cui un “come va a finire” descrive le sorti dei protagonisti del libro usando per i personaggi di finzione documenti storici del tutto verosimili ma finti, oppure veri ma détournati, e per i personaggi realmente esistiti dei veri documenti. In questo specifico caso, trattandosi di un romanzo storico, la sua piena internità al testo (non è un titolo di coda ma un “atto” al pari dei precedenti) riesce insieme a spiazzare il lettore – portato a credere che si tratti sempre di veri documenti, anche nel caso dei personaggi inventati – e ad autodenunciare il proprio essere anche fiction come il resto del libro. È un cortocircuito da far girare la testa che produce un effetto interessante – e che ritroviamo ulteriormente sviluppato nella progressione dei quattro racconti dell’Invisibile ovunque – ma che si discosta parzialmente da un discorso che sia sugli Uno e non sulle classiche narrazioni d’invenzione. Perché un’altra cosa da sottolineare è che gli Uno muovono praticamente sempre dalla volontà di raccontare – con mezzi letterari – storie vere.

 

In 108 metri Prunetti sceglie di mostrare la sutura non con dei titoli di coda ma lavorando su stile, personaggi, lingua e figure retoriche, nonostante a pochi giorni dall’uscita del libro pubblichi un articolo (quindi un epitesto, qualcosa che gravita attorno al testo ma a distanza, esternamente) che è una sorta di making of. I suoi strumenti sono invece tutti interni al testo, perché Prunetti voleva fare finta di fare fiction, voleva evocare l’effetto del romanzo. È un passo in avanti – o almeno laterale – nel cercare di rispondere ad alcuni interrogativi fondamentali su come raccontare onestamente senza essere didascalici o annoiare.

 

 

Avvistare gli Uno di persona

 

Nella maggior parte – ma non sempre – degli Oggetti narrativi non identificati che ho letto o su cui ho lavorato la storia è raccontata in prima persona o dal punto di vista dell’autore. Capita che si alternino parti in terza, in seconda e in soggettiva, o nella prima persona ma di qualcun altro. Ma anche in questi casi vi è una fortissima sintonia (un risuonare simpateticamente come degli armonici) tra la voce narrante e quella autoriale. A volte si sfocia in un autobiografismo che però, ben dosato, non scivola mai – non deve assolutamente – in un ombelicale “raccontare i cazzi propri”: autobiografismo e prima persona devono essere solo alcuni degli strumenti necessari.

 

Spesso questi racconti partono da esperienze personali accadute a chi poi decide di prendere la penna in mano: un incontro, il ritrovamento di un documento, la scoperta di una storia, una vicenda personale o familiare, una ricerca, un viaggio, l’aver assistito o partecipato a qualcosa. La realtà e il reale che si vogliono raccontare non parlano mai da soli, vanno scossi, sollecitati. Abbandonata l’illusione di un realismo mimetico, un raccontare che sia da sé totalmente aderente alla realtà, diviene imprescindibile una figura che faccia da mediazione tra l’oggetto narrato e il fruitore del racconto, tra soggetto e oggetto, nello scegliere cosa e come narrare. La presenza di un filtro letterario, con tutta la parzialità e la partigianeria che l’autore porta con il suo sguardo, col suo mettersi in gioco in maniera onesta e dichiarata, rompendo il falso mito di un’oggettività neutra, è uno strumento importante per raccontare senza patetismi o autocommiserazioni né eroismi o agiografie.

 

 

Che fare?

 

Non credo che vi siano soluzioni migliori o peggiori, che siano da privilegiare i titoli di coda o lo straniamento grottesco, che sia più efficace un punto di vista in prima o terza persona. La galassia degli ibridi è nebulosa, non c’è un canone, non ci sono ricette né risposte uniche alla domanda “cos’è un Uno?”. Si va avanti lavorando e sperimentando ogni volta con quella che sembra essere caso per caso la soluzione ai problemi posti dalla storia da raccontare, consapevoli che nelle infinite possibilità stilistiche e combinatorie quella alla quale si appone la parole fine è solo una delle possibili ipotesi narrative e formali, e non necessariamente la migliore.

 

Alla luce della lettura di 108 metri e di quella che nella riflessione sugli ibridi è la sua principale novità – non solo l’uso del fantastico, ma ibridare evocando l’effetto di romanzo – il passo in avanti – o laterale – è quello di aver rifornito la cassetta degli attrezzi di una serie di ulteriori strumenti necessari. La pratica di evocare l’effetto di romanzo può essere la maniera più efficace per raccontare determinate storie. Sarà da capire quali.

 

Ho sempre pensato che la letteratura deve indagare tra le pieghe del reale, fornire punti di vista altri, raccontare conflitti, dare voce a chi non la ha. Nel dibattito su come sia più efficace farlo – taglio con l’accetta –, se con una letteratura “realista” (rappresentazione mimetica il più fedele possibile di fatti che per la loro evidenza sociale parlerebbero da soli) o una “avanguardista” (usare strumenti tecnici e retorici propri del linguaggio letterario per fornire punti di vista altri), le posizioni – al netto delle varie sfumature intermedie e degli esiti migliori dell’uno e dell’altro caso – sono oscillate tra i rischi rispettivamente di rappresentare vittimisticamente quell’oggetto di indagine, in maniera semplificatoria, moralistica o con un sguardo esterno (o, peggio, dall’alto) e prescrittivo; e risultare incomprensibili, solipsismi cervellotici, classisti ed escludenti.

 

La strada degli ibridi narrativi prova a superare le paludi di questa contrapposizione, per scrivere libri che, senza abbandonare la sperimentazione delle possibilità linguistiche e retoriche della scrittura, riescano a indagare la realtà raccontando storie altre il più comunicative, fruibili e comprensibili possibile.

 

E se la storia va avanti per conflitti, il confliggere continuo – all’interno dei testi – di tipologie testuali, generi, punti di vista, fiction e non-fiction, personaggi, entità fantastiche, personalità grottesche, figure retoriche, iperboli, è un detonatore tanto potente da far esplodere la narrazione.

 

 

E senza il conflitto non si forma un immaginario, senza un conflitto, senza antagonismi, la narratologia ci insegna che non ci sono le storie, non c’è il materiale della narrazione. Il conflitto alimenta l’immaginario, le storie creano l’immaginario, l’immaginario crea conflitto e altre storie. E a ogni passo ognuno di questi fattori alimenta il successivo, circolarmente.