Benvenuti in Italia

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Qualche settimana fa la casa editrice Angelus Novus di Atene ha pubblicato l’edizione greca del Quinto tipo Al Palo della Morte, di Giuliano Santoro. Quella che segue è l’introduzione all’edizione greca, scritta dall’autore per contestualizzare il libro al lettore ellenico.

 

 

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Lo diceva con chiarezza William Burroughs. Abbiamo bisogno di «decifrare le parole»: «esse sono sempre più indistinte, si perdono in assurdo rompicapo». Da questa ossessione fottutamente materiale prendo le mosse in Al Palo della Morte, un libro che parla di un omicidio ma risente delle riflessioni di metodo contenute nei miei lavori precedenti sulle forme che la politica e la cultura hanno assunto in Italia all’epoca della diffusione di massa delle tecnologie digitali. Il fatto: un minorenne uccide un migrante in un quartiere periferico della capitale d’Italia. È un caso di cronaca nera che occupa lo spazio del trafiletto di un giornale.

Se ci esercitiamo ad andare oltre le narrazioni pigre ci accorgiamo di quanto questa storia ha da raccontarci. Innanzitutto, mi sono detto, non bisogna assecondare l’inerzia giustizialista. Da più di venti anni, da prima ancora che il corrotto Berlusconi prendesse il posto dei partiti della cosiddetta “Prima Repubblica”, è diventato automatico parlare di politica, società e persino di critica al potere ragionando in termine di reati, pene, condanne, indagini di polizia e carte della magistratura. Fare opposizione utilizzando carte processuali invece che analisi sociali e proposte politiche. Qualcuno, in questa delirante tendenza a infilare ogni fenomeno dentro le categorie di questura e magistratura, si è persino inventato un processo a vent’anni e più di storia italiana a partire dal misterioso reato (non previsto dal codice penale) di “trattativa tra stato e mafia”. Giovanni Fiandaca, eminente giurista e a suo tempo maestro di molti dei giudici antimafia siciliani, a proposito di quel processo ha scritto: «Ci sono ragioni per considerare tale vicenda come una sorta di metafora emblematica di una serie di complesse, e per certi versi patologiche, interazioni tra un certo uso antagonistico della giustizia penale, il sistema politico-mediatico e il tentativo di fare maggiore chiarezza, sotto l’aspetto storico-ricostruttivo, su alcuni nodi assai drammatici della nostra storia recente». Fiandaca critica in punta di diritto l’assurda ricerca «nella complessa e oscura trama delle vicende oggetto di giudizio, di qualche momento o frammento fattuale che fosse suscettibile di assumere parvenze di illecito penale». È probabile, se non sicuro, che apparati dello stato e dei servizi segreti abbiano nel corso degli anni mantenuto una relazione con la mafia. È tuttavia una vicenda politica che necessita una risposta politica. Non arriverà nessun poliziotto ad arrestare i cattivi, non ci sarà alcun processo risolutivo.

 

La storia di questo libro, invece, si muove ondivaga, per frammenti. Passa per analogie e differenze da un luogo all’altro e da un tempo all’alto, è frutto di un esercizio ardito. Mi sono proposto di indagare attorno a un omicidio, che forse è il reato per eccellenza, dismettendo le lenti del codice penale. Il primo obiettivo è depurare il fatto specifico dalla narrazione giuridica, ragionare attorno a un delitto prescindendo dal castigo che ne è seguito, andando oltre la responsabilità individuale e cercando di ricostruire la concatenazione sociale. Non accontentarsi delle (pesanti) condanne, non usarle come alibi ma cercare ricostruire una morte attraverso il suo contesto. «Leggendo questo libro mi sono sentito un po’ in discussione anche io», mi ha detto una persona che abita a pochi metri dal luogo in cui è stato ucciso Shahzad. È quello che avrei voluto sentirmi dire. Non ci interessa ovviamente seminare generici complessi di colpa ma sfuggire alla rassicurante condanna penale individuale per ricostruire le responsabilità sociali.

Prima di tutto il contesto. Benvenuti in Italia, paese a cavallo tra Alpi e Mediterraneo, Merkel e Pigs. Soltanto quarant’anni fa, negli anni Settanta del Novecento, questo era l’unico paese della fascia meridionale dell’Europa che conservava un governo democratico. Non c’erano Franco, Salazar, i Colonnelli o i militari turchi. Non che mancassero spinte reazionarie, tentativi di golpe e trame ordite da neofascisti, servizi segreti e mafie. Il più grande partito comunista d’occidente era impegnato ad accreditare le sue credenziali liberali, potenti movimenti sociali spingevano per l’allargamento dei diritti e dell’autonomia dal lavoro. È finita con la grande restaurazione degli anni Ottanta, migliaia di arresti e il ripristino della legge del mercato e della competizione, con qualche contentino assistenziale al Sud che stiamo ampiamente ripagando in questi anni di austerità. Tutto ciò ha preparato il ventennio di Silvio Berlusconi, che si è andato esaurendo soltanto per la consumazione fisica del Corpo del Capo. Lo ha sostituito, praticamente per abbandono del campo e mancanza di alternativa, il Partito democratico di Matteo Renzi, col quale va compiendosi definitivamente l’inesorabile spostamento della sinistra politica italiana verso il centro moderato e del dibattito tra partiti sul piano interamente spettacolare (dopo Berlusconi si contendono la scena un comico e due ex concorrenti di quiz televisivi).

 

Ecco lo scenario. Dentro questo scenario ci sono i fatti, come la morte di Shahzad. E ci sono le parole. Sono le parole che da anni i mass media utilizzano per descrivere gli eventi: le storie che circolano, il modo in cui sono impacchettate dai titoli dei giornali e dalle immagini delle televisioni, producono fatti concreti. La legge che attualmente disciplina le vite dei migranti, ad esempio, porta il nome di Umberto Bossi e Gianfranco Fini, vale a dire i due leader dell’estrema destra italiana. Il primo era grande capo e fondatore della Lega Nord e portavoce di una nazione inventata, la Padania, che descrive in maniera egregia l’emersione di una forma di fascismo postmoderno. Il secondo, allievo del neofascista Giorgio Almirante e segretario di Alleanza Nazionale, il partito traghettato da Berlusconi al governo. Battezzarono una legge che rendeva praticamente impossibile l’immigrazione regolare in Italia. Quella legge è tuttora in vigore, nessuno dei grandi partiti che si contendono il governo si propone di cambiarla. Eppure il discorso corrente, quello che passa di bocca in bocca e che anima i talk show politici e i dibattiti parlamentari, racconta di un paese in preda all’«invasione», al «buonismo», all’immigrazione fuori controllo. Gli anelli concentrici che partono dal corpo senza vita di Shahzad costituiscono una specie di reportage dentro il linguaggio. E allora è possibile provare a interpretare il rompicapo del linguaggio corrente di cui parlava Burroughs, decifrarlo e decostruirlo a partire da un evento di cronaca minimo? Per farlo ho dovuto misurarmi con la cruda realtà dei fatti, compulsare carte processuali e ficcare il naso in vicoli di periferia. Ma anche avventurarmi dentro modi di dire, immaginario pop, narrazioni cinematografiche e rappresentazioni retoriche. Che producono rapporti di potere. Per tornare alle vicende emblematiche delle narrazioni penali, sono gli stessi magistrati che nel 2015 firmano l’ordinanza di arresto per l’inchiesta romana denominata «Mafia Capitale» a specificare che la loro dissertazione prende le mosse proprio da grammatiche solitamente aliene alle fattispecie di reato. Nel caso specifico si riferiscono a una certa mitologia di Roma e della Banda della Magliana, dei rapporti tra fascisti e servizi e dell’aurea di onnipotenza e immortalità che circola attorno, ad esempio, a Massimo Carminati. Sono leggende e storie che circolavano prima di «Romanzo criminale», libro di Giancarlo De Cataldo dal quale sono stati tratti un film e una serie televisiva di successo. I giudici sottolineano «quanto esse abbiano contribuito a rafforzare il carisma e l’immagine criminale» di Carminati e citano alcune intercettazioni nelle quali il presunto boss dell’organizzazione discetta delle differenti versioni del romanzo di De Cataldo, la serie televisiva e il film, oltre che di alcuni documentari sulla Banda della Magliana. Già anni prima che questi miti si diffondessero era praticamente impossibile frequentare un bar di periferia senza che qualcuno degli avventori, dandosi un tono ma abbassando la voce, ti dicesse di avere avuto a che fare con qualcuno della Banda. Del resto è lo stesso Mike Davis, autore dell’imprescindibile saggio Città di Quarzo, a segnare uno stile che ha influenzato, nel suo piccolo, questo libro: per Davis è impossibile parlare compiutamente dell’urbanistica di Los Angeles senza passare in rassegna le storie che vi circolano e che vi sono ambientate, a partire dai noir che negli anni Trenta ridisegnarono la metropoli in crisi come «inferno urbano senza radici».

 

Negli stessi anni Victor Klemperer si aggirava per le strade di Dresda. Cristiano protestante di origini ebraiche, Klemperer aveva prestato servizio nell’esercito tedesco come artigliere sul fronte occidentale della Prima guerra mondiale. Quando cominciò la persecuzione nazista mise a frutto esperienza di vita e formazione accademica di filologo per appuntarsi tutti gli scivolamenti linguistici che avevano accompagnato l’ascesa al potere del nazismo. La sua capacità di tenere conto delle chiacchiere in birreria e della pubblicistica del periodo ci fornisce una preziosa indicazione di metodo. «Le parole possono essere come minime dosi di arsenico», annota Klemperer, «ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico. Se per un tempo sufficientemente lungo al posto di eroico e virtuoso si dice “fanatico”, alla fine si crederà veramente che un fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci un eroe senza fanatismo».

La diffusione dell’arsenico linguistico avviene dall’alto, dalle posizioni di forza e comando. Solo successivamente si diffonde nella società dispiegando le proprie tossine. Nei primi sei mesi del 2015 l’Osservatorio nazionale sui discorsi d’odio nei confronti di rom e sinti dell’Associazione 21 luglio ha rilevato 183 casi di hate speech contro tali comunità. Di questi,circa 105 vengono classificati come «gravi»: si tratta cioè di «casi di incitamento all’odio e discriminazione [...], i cui autori sono nella maggior parte dei casi esponenti politici, attraverso dichiarazioni sulla stampa e sui social media». «La facilità con cui i discorsi d’odio rivolti a rom e sinti trovano terreno fertile nel nostro paese», spiegano dall’Osservatorio, «ha la conseguenza di rendere sempre più accettabili e condivisibili, da parte dell’opinione pubblica, posizioni estreme e penalizzanti nei confronti di tali comunità, contribuendo così ad alimentarne un’immagine negativa e stereotipata».

Lo stigma che accompagna la presenza migrante in Italia è la parola «clandestino». Letteralmente, il clandestino è colui «che sta nascosto al giorno, che odia la luce del sole, occulto». Non è un termine «tecnico», tantomeno una definizione giuridica: il dizionario online «Parlare civile» che si occupa di depurare alcuni lemmi al fine di «comunicare senza discriminare» sottolinea giustamente che la parola «clandestino» «non ha equivalente a livello internazionale. Negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone si parla, più correttamente, di undocumented person». Eppure questo è il termine che compariva fino a un paio di anni fa nel sito del Ministero dell’interno. E la «lotta all’immigrazione clandestina» è espressamente citata all’articolo 19 del Trattato di amicizia fra l’Italia e la Libia siglato tra Berlusconi e Gheddafi nel 2008.

 

Dunque si tratta di lanciare connessioni tra mondi, territori e tempi diversi per comprendere ad esempio come sia possibile che in un quartiere popolare nato e cresciuto sulla scorta dell’emigrazione interna, del piccolo abusivismo edilizio (ciò che rendeva gli abitanti delle baracche veri e propri «clandestini» ante litteram) e da sempre attraversato da piccole forme di criminalità, possa essere investito da ondate di moral panic contro poveri e possa cadere nella trappola della retorica sulla «sicurezza». E come accade che i discorsi sul decoro, che dell’emergenza sicurezza è la declinazione molecolare, possano attecchire (ne ho parlato con Maysa Moroni e Andrea Natella in un articolo pubblicato su Nuova Rivista Letteraria, nuova serie, n. 2, novembre 2015). Mentre la paranoia securitaria si occupa di estendere il populismo penale oltremodo, l’ideologia del decoro punta più esplicitamente a ridisegnare il paesaggio urbano. Il decoro non si limita a iniettare ulteriore arsenico lessicale nel corpo sociale con parole quali «degrado», arriva anche a contaminare e pervertire parole fino a qualche anno fa tutt’altro che pericolose quali «bene comune» (i difensori del decoro insistono sempre sulla necessità di difendere il bene comune da qualche invasore) e «partecipazione» (non c’è retorica del decoro senza arruolamento di volontari disponibili a organizzare ronde, diventare delatori, sostituirsi a forze dell’ordine o lavoratori della nettezza urbana armati di spugnette e/o manganelli). Di fronte a tutto ciò non si tratta di ricostruire una (inesistente) essenza delle cose, ma al contrario di appropriarsi di alcuni degli strumenti del postmoderno senza cadere in giochetti autoreferenziali, pensiero debole, consolazioni relativiste e inservibili.

Possiamo cartografare le nostre città, il modo in cui vengono rappresentate, il nostro vivere comune e gli strumenti coi quali viene disciplinato? Possiamo riprendere in mano il modo di raccontare le nostre strade senza attingere alle stanche storielle che circolano da anni?