Api working class: ancora su fiction e non fiction in 108 metri

11 April, 2018 - 16:00
autore/i: 
Luca Casarotti

Dopo la risposta di Prunetti agli appunti di Wu Ming 1 su etica e poetica dello scrivere oggetti narrativi non-identificati, prosegue la riflessione corale su ibridazione, fiction/non-fiction, e narrativa working class.

 

 

Api operaie

 

Interrogandosi sulla commistione onesta di fiction e non fiction come strumento di veridizione, Wu Ming 1 ha parlato di quanto sia perturbante l’irrompere del fantastico in 108 Metri. The New Working Class Hero, il nuovo romanzo di Alberto Prunetti. Vorrei allacciarmi a questo discorso, e per farlo comincio da lontano.

Tra le declamazioni attribuite a Quintiliano ce n’è una, la XIII Maior, conosciuta con il titolo Le api del povero. Parla di un ricco latifondista che non voleva che le api del vicino povero volassero sui fiori dei suoi terreni: e siccome quelle non smettevano, le aveva sterminate, cospargendo i fiori di veleno. Queste declamazioni erano arringhe giudiziarie fittizie, con cui gli allievi delle scuole di retorica si esercitavano a prendere le parti dell’uno o dell’altro contendente in una causa. Qui l’ignoto autore, probabilmente un discepolo dello stesso Quintiliano, deve sostenere le ragioni del povero, che chiama in giudizio il ricco per farsi risarcire il danno. Il nostro oratore s’immagina che il suo personaggio, in quanto povero, non possa permettersi di pagare un patrono che parli ai giudici al suo posto, e quindi lo fa parlare in prima persona. Così gli fa dire d’essere un uomo soddisfatto del suo umile lavoro, che s’accontenta del poco che ha. E lo identifica con le sue api: «parche, fedeli, laboriose. O animali simili ai poveri!». Chi scriveva le declamazioni faceva parte dell’elite romana. Identica era l’estrazione di chi le leggeva o andava ad ascoltarle, e ritrovava in questa caratterizzazione, oltre al modello illustre delle Georgiche di Virgilio (il cui IV libro era appunto dedicato all’apicoltura), anzitutto la rappresentazione del proprio ideale di società, dove i subalterni erano moralmente virtuosi fino a quando non osavano mettere in discussione lo stato di cose presente.

 

Adesso chiudete le declamazioni di Quintiliano, e nel bicentenario della nascita del Moro di Treviri aprite 108 Metri. Anche nel libro del Prunetti le api sono protagoniste, e continuano a essere la metafora della condizione dei subalterni. Ma nulla potrebbe essere più distante dall’archetipo bucolico. Qui sono tante, incazzose, determinate a soffocare il padrone nella sua ipostasi orrorifica, l’Entità. O animali simili al «Sudicio Comitato di Addetti alle Cucine di Stonebridge»! «Maestri d’ogni arte culinaria», brillanti in «unauthorised abscence, misconduct e incompetence», distinti nel «lack of application», soprattutto eccellenti nel «fighting e nel serius damage to company property». Di costoro, e dei lavacessi di Bristol, e di un proletario laureato in fuga dai contratti a chiamata italiani – l’io narrante – e di una sfilza d’altri working poor, questo libro è l’epos. Metafore, epica... Ho detto troppe cose tutte insieme: procediamo con ordine.

 

 

Metafore sinfoniche labroniche

 

Parlare di questo romanzo a partire dalle metafore non è un vezzo intellettuale. Quello che potrebbe sembrare soltanto un elemento formale, l’uso di una certa figura retorica, è invece la sostanza del racconto, o almeno una parte di essa. “Usare le metafore” è la sineddoche con cui sin dalle prime pagine Alberto chiama la sua acculturazione, che non poco scherno gli procura tra le file della classe operaia labronica. «Chi? Il figliolo di Renato? Un terzinaccio, una promessa del calcio dilettanti», dice la vox plebis. «Uno che spazzava la palla o spezzava la gamba. Che troncava la tibia ai ragazzettidi undici anni. E ora non fa altro che infilarsi in biblioteca. Renato, portalo dal dottore il tu’ figliolo, fallo vedè che c’ha qualcosa... Renato annuisce. La verità in cuor suo la sa: pare che io usi le metafore».
Quella stessa classe operaia che per bocca del Quattr’etti, pensionato dell’Italsider, alla fine del libro chiede al Prunetti di essere il suo cantore. «E ricorda bene anche te, che sai trovà a modino le parole e hai studiato le metafore e le sai misurà col calibro, ricorda che quel ferro t’ha sfamato e t’ha fatto studià.
Càntagliele sode e vedi di raccontalla per le rime la nostra storia...».

Ecco, questo mi sembra uno dei gesti tipici della scrittura di Alberto: introdurre una figura retorica, un’immagine, per poi portarsela dietro per tutto il testo, riproponendola di tanto in tanto, trasformandola, facendola evolvere. Come nelle sinfonie migliori, in cui sentiamo succedersi tante melodie, tanti temi, e poi li ascoltiamo suonati tutti insieme nel finale, così accade in 108 Metri. Sono decine le immagini (le api, le impennate con la bici, il “morso del ciuco”) disseminate nel libro e poi radunate tutte insieme nel super tropo che occupa il crescendo conclusivo. Il finale in crescendo è un altro di quegli elementi a cui Alberto ci ha abituati, e che ci aspettiamo, anzi, che vogliamo dalle sue storie. Anche qui non si tratta di uno stilema vuoto, di un espediente usato solo per fare presa sul lettore. Se così fosse, l’esito suonerebbe falso, forzato, innecessario. Così non è, perché quelle storie il finale in crescendo lo esigono: e se epica dei subalterni dev’essere, allora ci vuole quel finale lì.

 

 

Epica comica e stracciona

 

A proposito di epica. La dichiarazione di poetica in 108 Metri è affidata a un passaggio de La neve nera di Oslo di Luigi Di Ruscio, posto in esergo al capitolo intitolato “That Is the Question”: «Alla povera gente non è adatta la tragedia che è roba di re e principi in ogni caso di gente altolocata, a noi poveracci si addice il comico, l’irrisione dello strazio e in certi illustri casi a noi si addice l’epica. A noi si addice il comico anche per i rocamboleschi sistemi messi in pratica per la sopravvivenza».
Epos e commedia, dunque. Dell’epica abbiamo detto. Quanto alla funzione del comico, il discorso è simile. “First, make them laugh”: è uno dei consigli più gettonati nei manuali americani di oratoria (o “public speaking”, se preferite). In questa visione, il registro comico non è nulla più d’una tecnica per assicurarsi l’attenzione dell’ascoltatore: meglio ancora se il parlante è autoironico e si prende poco sul serio... Nella scrittura del Prunetti la comicità ha una funzione completamente diversa: serve a rivendicare l’appartenenza di classe, a marcare la distanza dal padrone (cfr. la scena della degustazione proletaria a casa del ricco studente universitario senese). Altro che leggerezza, è una strategia di lotta, una serissima scelta etica e politica prima ancora che narrativa. Con le parole del Prunetti: «Vi faccio venire sotto. Vi lancio un aneddoto, ridete. Vi siete scoperti: destro d’incontro con una legnata emotiva al fegato. Accusate il colpo, incassate a fatica. Cambiate di guardia, finto con un’altra battuta e vi lancio un rapido job di sociologia, siete rimasti sguarniti da lato del materialismo storico. Andate a terra. Se cadete knock-out, è perché siete ancora vivi. Quel dolore è la vostra umanità. [...] Usare l’umorismo per coibentare il calore eccessivo delle vicende».

 

 

Lingue working class

 

La citazione è tratta dalla riflessione sulle nuove scritture working class pubblicata su giap lo scorso settembre. Tenete quel testo a portata di mano, mentre leggete 108 Metri, perché mostra come Alberto traduca e verifichi costantemente nella prassi il suo sforzo teorico. Ad esempio: uno dei tratti di queste scritture working class, dice Alberto, è l’uso del lessico tecnico operaio. Ed ecco una parte del lamento di Quattr’etti per lo spegnimento dell’altoforno di Piombino: «dovevi vedé che artisti erano i fonditori. Artisti, signorsì, mica generici, erano dei maestri. Dovevi vedé come lavoravano la colata... e poi i treni di laminazione. E poi in placca... io perlustravo anime, fungo, tempie e suola delle rotaie. Limavo la testa. Asportavo le paglie con la mola. Se c’era una scalfitura o una crepa, scartavo e rimandavo la rotaia difettata al taglio. Non ne sbagliavo una».
A questo punto potrei fare un’obiezione. Potrei dire che identica precisione manca per altri lessici specialistici, come quello giuridico. La «negligenza dolosa» non esiste, “concorso di colpa” non vuol dire quello che intende l’io narrante quando enumera i reati di cui si è reso colpevole insieme al cuoco contrabbandiere Silver e all’aiutopizzaiolo Rodrigo: «rovesciare l’acqua dei capperi nel frigo, dimenticare pezzi di ferro nella macchina tritamozzarella, far marcire – oh! Malo et nefando dolo! – i filetti di acciughe». Semmai quello sarebbe il concorso di persone nel reato: concorso di colpa è quando in un incidente stradale tutti e due i guidatori hanno torto... Ma la mia sarebbe una critica sbagliata. Se avessi dovuto fare la revisione legale del libro, avrei lasciato il passaggio esattamente com’è, perché qui lo scopo è chiaramente quello di scimmiottare (non di riprodurre) la lingua dei tribunali, e di satireggiarne la distanza da quella comune.

 

Per concludere, voglio sottolineare anch’io, da lettore e fan, un altro punto che Wu Ming 1, da scrittore, ha messo in evidenza nel suo post. Tra le pagine di 108 Metri respiro un’atmosfera familiare, che ho già assorbito leggendo altri libri italiani recenti. Con alcuni di questi libri, è il caso di Un viaggio che non promettiamo breve dello stesso Wu Ming 1, quello di Alberto condivide l’immaginario ispirato ai mondi di H. P. Lovecraft: nei due oggetti narrativi il nemico ha lo stesso nome, e viene “soprannaturalizzato” secondo rappresentazioni che si richiamano a vicenda. L’altro libro a cui penso non è un romanzo ma un saggio, scritto da una prospettiva partecipe e complice con la working class, ossia Non è lavoro, è sfruttamento di Marta Fana. Non a caso Alberto ne ha scritto una recensione narrativa. Qui il tratto comune non è ovviamente l’utilizzo di certe tecniche letterarie, ma l’intento di fare a pezzi alcune delle più perniciose, diffuse e disoneste narrazioni padronali: su tutte quella dei cervelli in fuga. Alberto mette in scena, e personifica nel suo io narrante ghermito dai cessi di Bristol e dalle mense del Dorset, quel che Marta mostra con i dati (vedi la sua lettera del dicembre 2016 al ministro del lavoro Giuliano Poletti).
Questi e altri libri ancora, mettendosi in relazione tra di loro, fanno con le retoriche imposte dal padrone quello che le api del Prunetti fanno con l’Entità: le circondano, le soffocano, moltiplicano le controstorie e le raccontano da mille punti di vista differenti. È ciò di cui sentiamo il bisogno, ora più che mai.